Province regionali Società

L'esultanza è durata ventiquattr'ore. Il tempo di afferrare il senso della decisione della Corte Costituzionale (non si può fare una riforma di sistema con lo strumento del decreto legge, da usare per far fronte ad esigenze di straordinaria urgenza) che il governo ha prontamente risposto: “Ah sì, e allora noi facciamo una legge di riforma costituzionale e le province le cancelliamo proprio dalla costituzione. Tutte”.

Dopo di che mutismo assoluto.

Ci sono quelli che se la godono, perché tanto in Italia tutte le grandi riforme non arrivano mai in porto. Ma pure i difensori delle province sono improvvisamente spariti. Neanche un divertente esercizio sull'attualità: che so, visto che le province, in attesa della generale scomparsa, non si accorpano e di conseguenza cadono anche i commissariamenti, non è che dovrebbero tornare i consiglieri provinciali già mandati a casa? e gli assessori?

Pare di capire, insomma, che sul contingente nessuno voglia scoprirsi. E pure sulle prospettive di lungo periodo si preferisce attendere il lavoro dei saggi, poi quello del comitato dei quaranta e, chi sa mai,la indizione del referendum.

E intanto nessuno si cimenta su una prospettiva possibile. Ci proviamo noi, affidando ai lettori il compito di riflettere durante le vacanze, per aggiornarci all'autunno. Le province sono state, essenzialmente, l'articolazione dei servizi dello stato sul territorio. Hanno, poi, assolto ad una funzione di decentramento democratico. L'ente locale chiamato provincia, attraverso un organismo consiliare e un governo eletto dal popolo, aveva competenze proprie. La provincia era cioè uno dei soggetti istituzionali della cosiddetta autonomia.

In Italia, però, mano a mano che aumentava la sfera della autonomia di istanza locale non diminuiva l'articolazione strutturale e funzionale delle competenze dello stato centrale. Neanche quando sono sorte le regioni, alle quali nel 2001 la riforma del titolo V della Costituzione ha assegnato decisive competenze esclusive (e una montagna di competenze concorrenti con lo stato), lo stato ha dimostrato di voler abbandonare i territori provinciali con le sue rappresentanze.

Ci si chiede: eliminate le province, saranno cancellati solo i consigli provinciali, gli assessori e i presidenti?

Senza il riferimento amministrativo-territoriale, resteranno prefetti, questori, colonnelli di Carabinieri e Guardia di Finanza, dirigenti di ragionerie provinciali, di uffici scolastici, di corpi forestali, comandi di vigili del fuoco?

Siccome la spinta a cancellare le province era venuta da esigenze di spending review, è ragionevole credere che la riforma complessiva del sistema delle autonomie cancellerà molte funzioni statali rappresentate in periferia delle tradizionali figure di prefetti, questori, colonnelli e dirigenti amministrativi statali. I tagli alla spesa dello stato consistono proprio nel ridimensionamento degli apparati burocratici, che dovrebbero assicurare soltanto le poche (e precise) competenze assegnate dalla costituzione riformata nel 2001.

Si tratterà di vedere come sarà rivista la complicata classificazione delle materie di “competenza concorrente” (tra stato e regione) e se si riuscirà a dare un taglio netto all'equivoco concettuale.

Sembra fuori orizzonte l'ipotesi di un rafforzamento dello stato centrale, ma sarà pure inevitabile una revisione delle competenze delle regioni, soprattutto con riferimento alla attività legislativa e a quella amministrativa.

Se il centralismo statale è un mostro che genera angoscia, l'esperienza dimostra che non si risolve il problema allestendo serragli nei capoluoghi di regione. Nell'ambito della autonomia organizzativa delle regioni ordinarie è sicuramente ricompresa la possibilità di decentrare i servizi amministrativi relativi ad alcune competenze regionali ad istituzioni territoriali sub-regionali. Non tutto può passare ai comuni, soprattutto se non si ha il coraggio di procedere a drastici accorpamenti.

E' possibile, quindi, ipotizzare (è una idea già da me affacciata: v. Realtà Sannita n. 10 del 1-15 giugno 2012) la organizzazione di servizi amministrativi regionali per circoscrizioni territoriali ampie, corrispondenti - in Campania - alle quattro province preesistenti (esclusa la provincia di Napoli che diventerebbe città metropolitana). Nulla vieta di chiamarle “province regionali”.

E' certo che non ci sarebbero gli organi amministrativi elettivi della tradizione, ma non si potrebbe escludere una funzione amministrativa frutto di elezioni di secondo grado. Quello che la regione deve sforzarsi di organizzare è un centro di imputazione di funzioni definitive affidato a funzionari col rango di direttori generali. Le province regionali non sarebbero, insomma, dei semplici terminali di servizio. Né degli ipotetici uffici di ammasso di scartoffie da delibare comunque a Napoli.

Agli uomini di buona volontà (nel novero dei quali generosamente attraiamo i politici di ogni livello) il compito di non sfuggire ad interessanti sviluppi. La nuova provincia regionale di Benevento potrebbe recuperare quel che dal cerchio uscito dal compasso di Garibaldi restò fuori.

Gli organi democratici del comune capoluogo potrebbero addentrarsi nella questione e dare così un senso a quello che sinceramente appare oggi come mera (loro) sopravvivenza.

Sindaco Fausto Pepe, colga l'occasione. O sta già studiando le competenze del parlamento europeo?

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it

Altre immagini