Isabella Morra e Benevento Cultura

Ogni verso d’Isabella Morra è un grido veemente di un’anima straziata, e talora sembra di sentirne l’ululato che, dai remoti burroni del Siri si leva fino a noi, per gridare, ben che sia tardi, vendetta.” (Angelo De Gubernatis)

A Benevento, alle spalle del Convento di San Francesco, che si affaccia su Piazza Dogana, nel punto che fa angolo con la Biblioteca Arcivescovile Pacca, dunque, in una traversa del Corso Garibaldi, si trova una stradina intitolata ad Isabella Morra, l’infelice e sfortunata poetessa di Favale, (oggi Valsinni, in Basilicata), vissuta circa 25 anni, abbandonata dal padre, segregata nel castello di famiglia, uccisa dai fratelli ed infine dispersa anche fisicamente, dal momento che, dopo circa cinque secoli, non si sa ancora dove si trovi il suo corpo.

Vissuta nel XVI secolo in una regione retrograda sotto il profilo culturale, intrisa di magia e superstizioni (come emerge dagli atti sinodali almeno fino al XIX secolo e come emergerà anche dal racconto di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli), unan terra legata ad un forte e strano senso dell’onore maschile, o meglio, di una sottocultura patriarcale che ne determinerà la «miseranda fine», da lei stessa peraltro profetizzata con lucidità in uno dei suoi poemi, Isabella è figura gentile e poetessa potente e dolente, anche se, almeno fino ad alcuni anni fa, meno nota delle altre poetesse del 1500, a lei coeve: Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Tullia d’Aragona.

Lo strano destino che perseguita Isabella Morra in vita e in morte (dimenticanza, abbandono), pare strisciare anche nella nostra città dove, per l’appunto, il suo nome compare sulla tabella di una stradina defilata e dove, molti, non sanno nemmeno chi ella fosse. Ne cerco il nome anche su un potente stradario online di Benevento, e la piccola strada a lei dedicata non compare neanche qui.

In effetti, già è tanto che a Benevento qualche amministratore (non sappiamo chi, ma ci piacerebbe saperlo), abbia dedicato al suo nome una strada cittadina, visto che nel capoluogo sannita le strade intitolate a nomi di donne si contano sulle dita di una mano. Ci sono via Adelperga, piazza Vittoria Colonna, via Tonina Ferrelli, via Patrizia Mascellaro, via Maria Penna, via Anna Severino. Poi, strade dedicate alla devozione mariana in varie versioni, ma è tutto. Un solo istituto di istruzione superiore cittadino è intitolato ad una donna, Giuseppina Guacci, napoletana, poetessa dell’Ottocento. Un po’ poco, visto che di donne notevoli il nostro Sannio ne ha espresse diverse, tanto che negli anni ho raccolto oltre cinquanta biografie notevoli, che sono poi confluite in una mia pubblicazione, edita da Realtà Sannita e intitolata “Storia delle donne nel Sannio”.

Sarà forse questo un segno dell’inconsistenza della presenza femminile negli scranni politici cittadini, oppure del disinteresse, a vari livelli, per le “questioni di genere”. È veramente un po’ poco, ripeto, nella città capoluogo, che quando si tratta di universo femminile si limita a parlare di Iside e delle streghe, e questo è tutto.

Negli anni, la letteratura su Isabella Morra è cresciuta in maniera esponenziale. Angelo De Gubernatis ne pubblicò per la prima volta le poesie, Benedetto Croce ne ricostruì per primo la tragica e breve storia, recandosi di persona a Valsinni, in quel castello di famiglia che sovrasta l’abitato sottostante e, nel quale, Isabella, conduceva la sua dolorosa vita, perseguitata da un’ “aspra Fortuna” ed una “dispietata stella”, in attesa di rivedere un padre esule in Francia, ma che non sarebbe più tornato, nel “denigrato sito” di Favale, quale causa del suo tormento, immerso in una natura anch’essa ostile e attraversato dal torbido Siri, senza rapporti umani e senza nemmeno la possibilità di trovare un amore che ne cambiasse in meglio la vita. Il filosofo napoletano ordinò anche degli scavi per trovare il corpo della giovane, ma senza risultati. Era il 1928.

Isabella scrive: «fra questi aspri costumi /di gente irrazional, priva d’ingegno, /ove senza sostegno / son costretta a menare il viver mio, / qui posta da ciascuno in cieco oblio».

In questa “valle inferna” della Basilicata, nella quale Isabella si sente soffocare e dalla quale vorrebbe solo fuggire, la giovane gentile è presaga del suo “miserando fine”, che arriverà a circa 25 anni per mano di tre dei suoi sei fratelli. Forse è il 1545: non è certa nemmeno la data della morte. Così come ad oggi rimangono oscuri i veri motivi di un delitto così efferato, un tradimento fraterno, un femminicidio in piena regola. Decio, Fabio e Cesare le inflissero ben cento pugnalate. Di mezzo c’è la storia della sua amicizia epistolare col poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, feudatario della vicina Bollita (oggi Nova Siri), sposato per procura con Antonia Caracciolo e padre di tre figli.

La messinscena del delitto d’onore, messa in piedi dai brutali fratelli, si inserisce in realtà nel quadro più ampio delle lotte tra Spagnoli e Francesi, che costellarono per anni il 1500. I Morra erano filofrancesi e non potevano sopportare l’amicizia di Isabella con uno spagnolo. Forse dietro ci furono dei mandanti. Forse in realtà il Saldoval faceva la corte alla sorella più piccola della famiglia, di cui conosciamo solo il nome: Porzia. Fatto sta che il Sandoval fu ammazzato dai tre fratelli di Isabella qualche settimana dopo, e la stessa sorte toccò al precettore della giovane, reo di fare da postino tra i due.

I tre fratelli scapparono in Francia, dove vissero tranquillamente la loro vita, protetti dal padre che si guardò bene dal consegnarli alla giustizia. Nessuno pagò mai per il delitto commesso. Nessuno si fece tanti problemi per la morte di Isabella, né per l’occultamento del suo cadavere, e la storia venne fuori solo perché il viceré Pedro de Toledo fece setacciare tutta la provincia per catturare gli assassini di don Pedro. Fu nella pequisizione del castello che emersero i versi disperati di Isabella ed il critico letterario Angelo De Gubertatis li fece pubblicare.

Il piccolo canzoniere di Isabella è formato di soli tredici componimenti, in cui il tema dominante è la Fortuna avversa che la perseguita e le è nemica. Sono versi che superano il petrarchismo della sua epoca e sono caratterizzati da una assoluta originalità, dovuta senz’altro alla condizione di isolamento di Isabella e dalla lontananza dai centri culturali importanti, in quel sud Italia tante volte ai margini della Storia.

Isabella è la sorella di tutte le donne senza voce, discriminate, maltrattate, abusate, uccise, trattate come una cosa e schiavizzate come lo fu lei.

Ma il legame di questa storia con la città di Benevento ci interessa anche per un altro motivo, che non è semplicemente quello dedicato all’intitolazione di una strada. E cioè per il fatto che la storia dei Morra e quella di Diego Sandoval de Castro sono in qualche modo legate alla nostra città.

Innanzitutto, come scrive lo storico Pasquale Montesano, nell’Archivio di Stato di Benevento è conservato un contratto di donazione da parte del barone Antonio Morra a favore del figlio Giovan Michele (il padre di Isabella), stipulato in Napoli il 20 giugno 1517, relativo ad una elargizione proveniente dai suoi beni feudali in Calabria, allo scopo che Giovan Michele avesse di che vivere e sostenersi insieme con la moglie e la famiglia.

Come detto, Giovan Michele deve scappare quando nel regno di Napoli Carlo V di Spagna ha la meglio sui francesi e sul loro re Francesco I e, dunque, era venuto meno all’obbligo di fedeltà al re Carlo V ed al Principe di Salerno, Ferrante di Sanseverino, di cui era suffeudatario. Il feudo di Favale è confiscato alla famiglia e solo dopo una lunga causa, il feudo viene dato al primogenito, Marco Antonio.

Il de Sandoval dovette riparare per un certo periodo a Benevento. Pare che fosse un avventuriero e un donnaiolo, almeno così è descritto in alcuni resoconti storici. Montesano scrive: «Isabella Morra e Diego Sandoval de Castro ebbero modo e occasioni di conoscersi e di frequentarsi, quanto meno nel nome della poesia. Sicuramente nella corte del principe Pietro Antonio Sanseverino. Ma, dovettero in seguito incontrarsi clandestinamente o avere scambi di corrispondenza, allorquando il Sandoval fu dichiarato “bandito e contumace” perché accusato di malversazione dei fondi della Donazione Militare di Cosenza, di cui era stato per qualche tempo amministratore.

Invitato da Carlo V a discolparsi, per ben due volte ritenne di non giustificarsi e fu condannato in contumacia. Tuttavia, più o meno di nascosto, viaggiava e continuava a recarsi nel suo feudo di Bollita, dove vivevano moglie e figli. Risultava rifugiato nelle terre del Papato a Benevento, dove risiedevano avventurieri di ogni sorta, coperti dal mantello papale».

Il de Sandoval conosceva bene i fratelli di Isabella e la loro ferocia, per questo, dopo l’assassinio della giovane, decise di farsi accompagnare da una scorta armata. Questo non lo salvò dal destino che lo attendeva e che fu dunque legato per sempre a quello della poetessa di Favale.

LUCIA GANGALE