L'editoriale di Mario Pedicini Società

Ancora una volta il moralismo si dimostra essere il veicolo del pensiero inerte. Esso è, infatti, un movimento di blocco e non di apertura, tende a stoppare un qualunque fruscio di novità, ostacola l’avanzata di nuovi ceti sociali, scoraggia il cambiamento e l’azzardo facendone una stessa cosa. Il moralismo usa argomenti facili, ai giorni nostri non tanto più l’onestà personale, quanto per esempio l’uso del pubblico danaro. Il moralista, cioè la persona che fa del moralismo il suo stendardo, diventa di per sé onesto e incorruttibile. Si rende, quindi, automaticamente invulnerabile. Si legittima, poi, per ogni azione di attacco. La sua posizione, talvolta, diventa a tal punto prestigiosa che non si deve preoccupare più di tanto della propria coerenza, perché, essendo onesto e incorruttibile nessuno può pensare che lo faccia per secondi fini. Il moralista è, infatti, per definizione disinteressato. Se accetta candidature in collegi sicuri e posti di ministro, non lo fa certo per soddisfare ambizioni personali, ma sempre – si diceva una volta – per servire il popolo. Ed è il popolo la più facile preda dei suoi inganni, perché un vero e proprio inganno viene perpetrato ai danni della gente comune che è facile a infiammarsi per seguire una battaglia fatta contro i ricchi, i prepotenti e i “pericolosi per la democrazia”. Nessuna meraviglia, quindi, che siano partite le solite bordate moralistiche contro i “facili viaggi” di amministratori pubblici andati a New York per il Columbus day. Non intendo qui illustrare che cosa sono, per le diverse comunità americane, le tante cerimonie celebrative che vanno sotto il nome di Columbus day, quale occasione di coesione sociale esse siano e quali valori di democrazia libera esse esaltino. E neanche mi pare questo il momento di far capire quali interessi possiamo noi avere a tenere in piedi relazioni con nostri comprovinciali ormai affermati e ramificati nell’amministrazione, nell’economia e nella politica della più grande potenza del pianeta. Vorrei solo richiamare una piccola vicenda che mi pare illuminante. Mentre il deputato di AN Tagliatatela proponeva una interrogazione al Governo per criticare l’andata in America dei nostri amministratori, il ministro Tremaglia sul Corriere della Sera proponeva alla riflessione del lettore la straordinaria necessità, da parte dell’Italia, di coltivare e rafforzare certi rapporti. Nonché di tenere presenti certi interessi di natura prettamente politica, visto che nel 2006 verranno eletti deputati e senatori provenienti dai collegi degli “italiani all’estero”. Nello stesso partito, cioè, emerge l’uso tutto moralistico da parte dell’uno (Tagliatatela) e la riflessione tutta politica (Tremaglia) della stessa questione. Io sto con Tremaglia, la cui storia personale lo mette al riparo da tutte le insinuazioni possibili. Per quanto riguarda, poi, il merito dei viaggi, cioè la discussione sulla loro opportunità, se fosse per me renderei obbligatorio per gli amministratori locali fare esperienze dirette presso altre realtà istituzionali e sociali. La classe dirigente che ha sostituito, con processi traumatici e caotici se non proprio casuali, quella della prima repubblica è una classe dirigente, infatti, autoprodotta. Non viene fuori – parlo in generale – da una selezione frutto di pratiche culturali curate dai partiti o dall’associazionismo. I partiti, i sindacati, l’Azione Cattolica allenavano i giovani alla discussione ideologica, ne facevano emergere le doti caratteriali (leader o gregario), li mettevano alla prova con successive e graduali proposizioni di responsabilità. Insomma, nella società dei partiti e delle associazioni, ogni amministratore seguiva un processo di assuefazione culturale. Non viaggiava, certo, ma leggeva o ascoltava conferenze o partecipava a convegni dove si discuteva veramente. Si potevano dire stronzate, ma nessuno parlava per far arrivare la “battuta” in televisione, lo faceva perché in quel momento ci credeva. Il mondo moderno rende, peraltro, possibili i viaggi. L’aereo non costa un occhio della testa, ci sono collegamenti con tutto il globo, un po’ di inglese lo masticano tutti. La conoscenza diretta, sia pure per sensazioni, produce molti più effetti di tanti libri letti, soprattutto se uno sa accoppiare libri e partenze. Mandare a New York o ad Adelaide o a Tokio o a Pechino o a Buenos Aires un consigliere provinciale di Benevento non è un regalo di cui vergognarsi ma è un investimento, oserei dire un diritto-dovere. Quel che i moralisti potrebbero mettere in discussione è, invece, la scientifica distribuzione di presidenze e posti vari, la loro perfetta concatenazione, l’ingegnosissima costruzione di calendari di sedute di consigli, di giunte e di commissioni che fanno degli amministratori locali degli autentici “stipendiati”. Il moralista fa sapere quanto è costata la gita a New York. Mai il moralista ha fatto sapere al contribuente questo costano queste prebende ben organizzate. Perché mai? Il moralista vede la pagliuzza nell’occhio del nemico e non la trave nel suo. Il moralista, si dà il caso, quando fa l’amministratore locale, rientra senza fastidio nella distribuzione dei pani e dei pesci. Non alludo solo all’espansione delle commissioni al consiglio regionale, operazione fatta apposta per “offrire” all’opposizione tutte le comodità per far bene il controllo sulla maggioranza. Intendo tutti i marchingegni alchemici per essere presente ( o “portato presente”) laddove c’è da lucrare un gettone. Il moralista non è invidioso, tant’è che lui tra un viaggio offerto (che, se pure pagato, comporta delle spese: un pigiama, mutande e calzini nuovi) e un gettone lui opta per il gettone. Ecco perché, come dicevo all’inizio, il moralismo è una malattia molto simile all’infantilismo.
MARIO PEDICINI