Il 10 febbraio il ''Giorno del ricordo'', parla Secondo Sangianantoni: ''A Pola il teatro del dramma'' In primo piano

Italiani in classe agli ultimi banchi. Il figlio del casellante crocifisso. Legati per il braccio fucilato uno tutti gli altri precipitavano vivi nella foiba. L’accoglienza al campo profughi di Capua.

Molti … figli e discendenti di quegli italiani dolenti, perseguitati e fuggiaschi, portano nell’animo le cicatrici della vicenda storica che colpì i loro padri e le loro madri. Ma quella ferita, oggi, è ferita di tutto il popolo italiano, che guarda a quelle vicende con la sofferenza, il dolore, la solidarietà e il rispetto dovuti alle vittime innocenti di una tragedia nazionale, per troppo tempo accantonata.

Dal discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 9 febbraio 2019

Come tanti altri, i ricordi se li è tenuti per sé. Ha accettato di aprirsi facendo credito agli intervistatori che nessuna strumentalizzazione è lecita per una confessione da prendere come una piccola pagina di storia.

Secondo Sangianantoni ha spento 80 candeline il 12 gennaio. La moglie insegnante gli ha donato tre figli, i quattro nipoti hanno in lui un riferimento sicuro. L’intervista avviene ad Altavilla Irpina dove le miniere di zolfo richiesero la creazione di una apposita stazione della ferrovia Benevento-Avellino, che vide sbuffare la prima vaporiera l’8 marzo 1891. Suo padre arrivò qui come capostazione, Secondo ne ha seguito le orme e ha fatto il “capostazione principale” alla Stazione Centrale di Benevento. Fu in occasione del centenario che ci fu un inatteso incontro.

L’intervistatore maschio sarebbe diventato Provveditore agli Studi, l’ufficio era a quattro passi dalla Stazione Centrale. Si dimostrò interessato e pose come condizione che il viaggio del convoglio celebrativo da Avellino a Benevento fosse condotto da una locomotiva a vapore d'epoca. Allo scambio finale dei rispettivi riferimenti telefonici la precisazione di nome e cognome. Sangianantoni? Secondo? Ma tu sei Pippetto della sezione A e io sono Il Piccolo ‘Ndriuccio o anche Animalonga della sezione B che al Liceo Giannone facevamo il giornale sotto la direzione di Mario Coletta.

Baci e abbracci. La festa del centenario fu un trionfo. Le scolaresche appostate in tutte le stazioni fecero rallentare il convoglio. Ma mai ritardo fu più applaudito.

L’intervistatrice femmina, pur facendo la preside all’Istituto Tecnico per Geometri di Benevento e poi l’ispettrice al Ministero, in Altavilla ha le radici di una mamma operaia alla Miniera e una voglia matta di trasferire in politica i progetti lungamente coltivati per onorare i sacrifici di tante donne. Non l’è bastato fare la sindaca. Ha animato iniziative culturali di pregio e qui ancora una volta, sia pure con ruoli diversi, ma con un solo afflato spirituale si ripetono altri incontri.

Gli anni passano ed ecco la trepidazione per una “esclusiva”. I due intervistatori hanno lavorato insieme nella scuola, hanno realizzato volumi di storia sociale, si stimano. Non ambiscono a “esclusive”. Ecco che decidono di ricavare insieme una intervista al cittadino altavillese già capostazione, marito, padre e nonno felice. Sì, dice il Beneventano, vengo io ad Altavilla, ma di cosa parliamo? Facciamo parlare Sangianantoni, è la replica criptica della Altavillese.

E così una mattina, fresca anzichenò, ci accomodiamo nella bella casa del palazzo Capone.

Secondo Sangianantoni si è fatto accompagnare da un figlio e da un nipote. E’ cordiale come sempre.

Che ci devi dire?

Che io sono un profugo istriano...

Sei disposto, quindi, a raccontarci un pezzo di vita della tua famiglia e della tua stessa fanciullezza?

Non ho mai voluto partecipare alle tante commemorazioni che si fanno, anche per non essere strumentalizzato a fini di nuovi odi fratricidi. Ho accettato la sollecitazione di Antonetta Tartaglia, perché ne conosco l’onestà intellettuale. Dirò quello che ho conservato negli anfratti della memoria ma che mi appare, solo da pochi anni, vivido, chiaro e preciso, in quanto c’era stato in me un processo di rimozione.

Fissiamo allora i tempi...

Mio padre, Eugenio, nato a Salerno 21settembrer 1906 era capostazione a Petina sulla linea Sicignano degli Alburni- Lagonegro. Decise di chiedere il trasferimento in Istria e nel 1940 divenne capostazione a Dignano d’Istria, a metà strada tra Trieste e Pola. Io sono nato a gennaio e a settembre del 1940 con la famiglia salii in questa parte dell’Italia che ci appariva come un piccolo paradiso. Nel 1944 mio padre divenne capostazione a Pola, il mio mondo era tutto tra i binari e il mare. Dietro cinque file di binari c’era il mare e lì ho imparato a nuotare. Ricordi anche cestoni colmi di giuggiole. Di Pola ho ricordi bellissimi. Gli amici più grandi giocavano a nascondino sul Viale Nimita, tra l’anfiteatro romano e il molo con la statua di Giulio Cesare. Statua che gli italiani riuscirono a portare a Trieste quando la vita per noi divenne impossibile.

Quanti italiani c’erano a Pola?

Eravamo tutti italiani. Mussolini aveva cacciato tutti quelli che non volevano parlare l’italiano. Forse in questa decisione politica potremmo rinvenire le radici profonde della inimicizia dei locali verso gli Italiani, quando le sorti della guerra e la caduta del fascismo in Italia ci videro diventare “stranieri in patria”.

Nel ‘46 ci fu la divisione tra la zona A e la zona B...

Gli Italiani che potevano cominciavano a spostarsi verso Trieste, prima di capire in quali parti d’Italia ci fosse un clima favorevole. Ricordiamoci che noi, in qualità di Italiani, eravamo automaticamente classificati come fascisti. Nelle zone del centronord dove era in atto la resistenza antitedesca, non era facile trovare comprensione e accoglienza. Non solo gli slavi, ma anche gli Italiani non ci vedevano di buon occhio. Diversa la situazione nel Mezzogiorno, ma per arrivarci bisogna affrontare seri rischi.

Come cambiò il clima?

A Pola io ho fatto per intero la prima elementare e per metà la seconda. Ricordo perfettamente che la maestra parlava solo sloveno. I 5-6 alunni italiani stavano in fondo all’aula, agli ultimi banchi. Eravamo emarginati. Ci facevano fare i camerieri dei bambini sloveni. C'era questa forma di persecuzione trasversale, ma ci furono anche azioni delittuose.

Te la senti di ricordare qualche episodio?

Passavamo a prendere, per andare insieme a scuola, il figlio di un casellante, sulla linea ferroviaria. Non rispondevano ai nostri richiami. Decidemmo di entrare. Erano Italiani. Tutti morti. Il bambino crocifisso.

Non c’era una autorità, che disciplinasse i nuovi rapporti?

Chi ha studiato la storia di quel che è accaduto in quella parte dell’Europa sa che le diverse etnie hanno conservato un orgoglio che non ammette il senso della pietà. Non c’era né legge, né autorità. Attorno alla stazione avvenivano assalti e omicidi. Le fucilazioni di persone inermi venivano accompagnate da musica, canti e suoni. Cantavano e si ubriacavano...

Avevate notizie delle foibe?

Abbiamo visto le Truppe Ausiliarie Slave procedere ai rastrellamenti di chi doveva essere precipitato nelle cavità naturali che loro chiamavano foibe. Ebbene gli Italiani fatti “prigionieri” venivano legati in sequenza uno al braccio dell’altro e portati sull'orlo della fossa, cosicché ne bastava fucilare uno solo perché si accasciasse e trascinasse tutti gli altri nella foiba.

Puoi in coscienza affermare che finivano ancora vivi in fondi ai crepacci naturali...

Aggiungo che si sentiva gridare “Io, prima io...”. Si auspicava di ricevere una fucilata in petto per soffrire meno. Questa è la realtà senza retorica delle foibe. Noi Italiani non venivamo individuati per atti commessi, ma per il solo fatto di essere italiani. In questo c’è un parallelismo perfetto con lo sterminio degli Ebrei. Loro e noi eravamo condannati a morire per il solo fatto di esistere, non per qualche violenza commessa. La mia famiglia godeva di una certa protezione perché mio padre faceva funzionare la ferrovia. Il suo ruolo, ancorché svolto da un italiano, era essenziale per le operazioni di spostamento lungo i fronti. Certo stavamo chiusi in stazione in coabitazione forzata.

Tu dici Noi eravamo Italiani. Ma di quale Italia?

Comprendo il senso della domanda. Sapevano quello che era successo e stava succedendo in Italia. Sapevamo che poteva capitare di essere ammazzati anche per mano di Italiani in certe zone. Non voglio accendere fuochi polemici, non è l’intento di questa confessione. Ma tutti i profughi istriani sono stati considerati con fastidio da tanta parte di connazionali che per anni non hanno potuto conoscere questa storia dolorosa e triste.

La vostra famiglia si può considerare fortunata?

E’ brutto ricorrere alla contabilità. Il marito di una sorella di mia madre non è più tornato a Dignano da una formalità burocratica presso la sede del partito fascista e di lui non s’è saputo più niente.

Nel 1947 le potenze vincitrici della guerra scrivono il Trattato di Pace e all’Italia toccò solo di firmarlo, il 10 febbraio a Parigi, come nazione sconfitta. Il rispetto delle clausole del trattato fu affidato agli eserciti occupanti. Quindi le violenze si ridussero, agli Italiani si lasciò la libertà di optare per ilo ritorno in patria.

Ma mio padre non poteva usufruire dell’opzione perché, da ferroviere, doveva fare l’istruttore delle nuove leve di origine slava.

Chi fece il viaggio di ritorno?

Mia madre, Olga Della Monica, con le sue sorelle Maria e Pia, mia sorella Maria Teresa nata nel 1938, e io. Dovemmo lasciare tutto. Prima di partire da Pola gli slavi ci tolsero anche i cappotti. La prima tappa fu breve. Si arrivava a Trieste. Poi ci richiusero in un campo a Lignano dove rimanemmo tre mesi.

Quando riusciste a vedere che l’Italia era ridotta in macerie?

Lungo il viaggio da Lignano a Capua. Da un campo profughi all'altro. L’assistenza alla quale avevamo diritto era quella riservata ai “profughi”.

Cittadini italiani in attesa di riconoscimento. Schedati sì, ma in qualche modo protetti. E poi diretti verso casa...

Ma da Lignano a Capua il passaggio fu atroce. A Capua i profughi avevano solo un lungo muretto dove potersi sedere. La protezione dagli agenti atmosferici era assicurata da baracche.

Quanto durò la permanenza a Capua?

Solo una notte, ma chi potrà mai dimenticarla.

Sarà stato più accogliente l’arrivo a Fisciano...

Non c’è dubbio, si sentivano gli affetti familiari, ma tra Pola e Fisciano c’era semplicemente un abisso. A Fisciano ho fatto la quarta elementare e la classe stava in una stalla. Ricordo ancora oggi i marmi bianchi dell’edificio scolastico di Pola… Però a Fisciano riprendemmo a dormire in un letto....

MARIO PEDICINI

ANTONETTA TARTAGLIA