Il decreto per un rilancio che non ci sarà In primo piano

Una volta si diceva “La montagna ha partorito il topolino”, ma nel caso dell’ultimo provvedimento del Governo Conte si è verificato il caso opposto: i topolini hanno partorito una montagna. E immaginiamo con quanta fatica. La fatica di un lavoro svolto - come ha detto il premier - senza sprecare neppure un minuto per scrivere il decreto e presentarlo come un atto risolutivo. Ma evidentemente senza perdere nemmeno un minuto per rileggerlo.

Lo hanno chiamato Decreto Rilancio, forse però non propriamente nell’accezione economica e politica del termine, bensì in quella del poker o delle aste, e cioè inteso come un aumento della posta in gioco o dell’offerta: in parole povere sparandola più grossa, sullo stile che ricorda purtroppo molto quello di Cetto Laqualunque ideato da Antonio Albanese che prometteva “tutto” per tutti. Sulla tempistica, poi, sarebbe stato forse più giusto chiamarlo Decreto Rimando essendo slittato da aprile a maggio e quindi (forse) fino a giugno per l’approvazione e l’attuazione, senza considerare altresì i tempi necessari per i decreti attuativi e per l’elaborazione delle procedure che dovranno essere redatte dagli enti coinvolti.

È chiaro che così, mentre il medico studia, l’ammalato muore.

Un “rilancio” maldestro, insomma, racchiuso nell’atto finale (per ora) di un Governo che, pur mostrandosi inizialmente e in apparenza risoluto e capace, nella sostanza ha poi fallito su tutti i fronti portandosi dietro un carrozzone di esperti di task force ormai difficilmente quantificabili superando il migliaio, coinvolgendo svariati commissari e responsabili “straordinari” (nel senso di completamente fuori dall’ordinaria logica, ma senza alcuna eccezionalità), e poi scatenando un mare di polemiche che vanno dalla scarcerazione dei mafiosi alla liberazione di Silvia Romano, passando per le lacrime di forneriana memoria della ministra Bellanova.

Scelte incaute, fatte forse con la regia di Rocco Casalino nell’ottica di un Grande Fratello governativo, oppure intese come distrazione mediatica ideate per distogliere intanto l’attenzione sull’uscita del decreto ormai attesissimo dagli italiani ma che - consapevolmente già per chi lo ha scritto - si è subito rilevato un bluff tanto da suscitare dubbi persino negli ambiti più fermamente filo-governativi.

Cinquantacinque miliardi, seppure in deficit, sono una somma importante e necessarissima dopo oltre due mesi di blocco totale di ogni attività. Una somma però sprecata con stanziamenti che prevedibilmente e chiaramente saranno bloccati in gran parte già in partenza da paletti e condizionalità e che per di più si basano spesso su riferimenti del 2019, non solo per quantificare giustamente le perdite, ma al tempo stesso pure per deliberare le concessioni, e quindi di fatto tagliando fuori chi si è trovato in difficoltà non l’anno passato, bensì in questo.

Sono stanziamenti frammentati pensati per un’utenza legittimamente vasta, ma che all’atto pratico non potrà beneficiarne se non in minima parte, e che - qualora ciò avvenisse - riceverà aiuti comunque poco utili nell’immediato e del tutto inadeguati al “rilancio” sul lungo periodo perché persi nei rivoli di casse integrazioni, di redditi emergenziali e di contributi a fondo perduto, peraltro molto modesti per le piccole imprese che sono le uniche in difficoltà reali nonché il vero motore del paese.

Per finire c’è una grande cospicua di “bonus”, anch’essi però parziali ed esigui, soggetti a varie condizionalità e suscettibili inoltre delle indicazioni del governo che ne impone l’utilizzo per baby-sitter, monopattini, vacanze e varie altre amenità, senza tener contro che sessanta milioni di italiani hanno in realtà altrettanti milioni di ben più realistiche esigenze primarie. Più giusto dunque sarebbe stato assegnare fondi anche minimi, ma senza specifici vincoli di utilizzo se non magari nei settori quali famiglia, lavoro, turismo, mobilità, ma in ogni caso a piena discrezionalità dei destinatari. Se ciò non è stato fatto è perché ai proclami corrispondono “miliardi” in realtà in gran parte teorici. Nel primo round, infatti, il Governo confidava negli “atti d’amore delle banche” promettendo un astratto “pagherò”, mentre in questo “botto” finale spera in atti d’altrettanto amore da parte di rivenditori, imprese, esercenti turistici, i quali dallo Stato (da questo Stato) dovrebbero accettare una cambiale in crediti d’imposta che con molta probabilità non riusciranno neppure a riscuotere in modalità e tempistiche certe. Per il resto, invece, si confida che gli italiani (ancora ostinatamente ritenuti grandi risparmiatori), ci metteranno la differenza, senza però sapere che non sarà così, perché così non è più ormai da tempo.

L’attesa e declamata potenza di fuoco insomma non c’è stata, né questo poco esplosivo (ma costosissimo) tric-trac fondato sui debiti produrrà concretamente alcun frutto, poiché a stento supporterà soltanto alcuni italiani per la sopravvivenza di qualche mese, e poi lascerà il vuoto: un vuoto che del resto ben si percepisce al momento con 27000 negozi già chiusi in Italia, molte attività che hanno fatto la saggia scelta di non riaprire (tra cui i celebri bar Gambrinus di Napoli e l’Harry’s di Venezia), ed altre che senz’altro chiuderanno dopo gli esperimenti di riapertura preannunciatisi già fallimentari. Il motivo, prevedibilissimo e scontato, sono le regole onerose, tardive e farraginose a cui le attività dovrebbero adeguarsi, senza peraltro la certezza che esse non verranno modificate in corso d’opera come sempre immancabilmente accade in Italia, ma in compenso con la probabilità di nuovi lockdown e con l’altra certezza di un calo della clientela per effetto di norme e distanziamenti.

Altra nota dolente per il futuro italiano saranno infatti proprio queste infinite regole di distanziamento che - per di più variabili da regione a regione e da comune a comune - impongono divieti oggettivamente non rispettabili anziché richiamare il buon senso che sarebbe molto più logico. Regole oltretutto basate su parametri scientifici alquanto bizzarri poiché concepite per il contrasto di un virus che, di noto e dimostrato, pare abbia avere finora soltanto un gran senso delle proporzioni se fosse vero - come indicano le precisissime norme - che a mare esso si propaga nel raggio di nove metri, ma di quattro al ristorante, di due al bar e di uno sui mezzi pubblici. Virologi “di Stato e di televisione” severissimi nelle misurazioni metro alla mano, trascurano però il pericolo delle riaperture in Lombardia e nel nord Italia che hanno già generato le primissime conseguenze per l’ondata di contagi di nuovo in salita, così come in passato si sono confusamente contrastati confusamente tra loro sul tema mascherine-sì e mascherine-no, fin quando hanno optato per un assoluto sì, passando la palla al commissario Arcuri che - più straordinario di tutti - ha generato il caos totale su ogni aspetto, dall’approvvigionamento, al prezzo e alla distribuzione.

Regole e regoline, si diceva, inapplicabili e incontrollabili che, in condizioni di caldo e in ambienti come il mare e le spiagge, genereranno - oltre la confusione - pure la rabbia della gente per l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine chiamate all’ingrato compito di sorveglianza e al tempo stesso di fare cassa multando tutto il multabile, dai manifestanti per i loro diritti e alle coppiette che si baciano, fino a chi beve in strada il caffè da asporto, in questo caso con il benestare autorevole del ministro Boccia che lo ha classificato come un “reato”.

Il topolino, si diceva, ha partorito insomma una montagna di carte, di auto-certificazioni, di decreti lunghi come la Divina Commedia, e di Dpcm ricchi peraltro di piccole perle. Passeranno alla storia, ad esempio, gli ormai celebri “congiunti” non identificabili per privacy (dunque già concepiti come ideali attori di una legge con trovato-inganno già compreso), ma che in tempo di pandemia ci hanno almeno fatto “divertire”, esattamente come - secondo Conte - ci fanno tanto divertire i lavoratori dello spettacolo citati nel recentissimo discorso e che ha sollevato altre polemiche tra gli addetti ai lavori.

Ancor prima, sempre Giuseppe Conte, sciorinò in conferenza stampa più di venti “concediamo” che irritarono gli ormai sparuti fautori delle libertà personali, i quali però gli ricordarono che in realtà sarebbero stati gli italiani casomai a concedergli di occupare il posto di governo che occupa. In altri tempi e contesti, frasi del genere avrebbero fatto gridare tutti al fascismo, ma non ora. Ora il popolo è stato debitamente e televisivamente educato alla paura sanitaria e ad accettare con questo spauracchio persino la più paradossale normativa.

Il popolo è stato ammaestrato a mettere da parte coscienza politica e civile, e soprattutto a perseguire quel “distanziamento sociale” tanto decantato dai mass media e dai politici fino al punto di consentirne liberamente l’attuazione con tutto l’odio e il rancore possibili, di scatenare diffidenze e allontanamenti finanche tra genitori e figli, parenti e “congiunti”, conoscenti e amici, e infine di alimentare e istigare la delazione che fu una nota prerogativa dell’Ovra nel ventennio, ma che ora è stata trasformata in “dovere civile” se utile alla denuncia di assembramenti e presunti untori.

Nella pandemia e nel dopo-pandemia, registi e attori di questa farsa che ha invischiato l’Italia in una via palesemente senza uscita sono Giuseppe Conte - che ambiva a fare l’avvocato degli italiani e si è invece ritrovato a fare il giudice di Pace tra le beghe politiche dei suoi stessi sostenitori - e un manipolo di improvvisati ministri i quali, chiamati come da prassi a ricoprire un comodo e prestigioso ruolo per quote di partiti di coalizione, si sono trovati inaspettatamente in una situazione che ne ha ben presto smascherato l’inadeguatezza. D’altronde, a ben guardare, non si poteva pretendere molto di più da uno storico serio come Gualtieri prescelto però per fare il ministro dell’Economia, né tantomeno da un nutrito stuolo di “ex”, arrivati a Montecitorio con un pregresso curriculum da venditori di bibite allo stadio e da dj di discoteca e via discorrendo, rappresentati da un ex concorrente del Grande Fratello e pertanto necessariamente affiancati da un migliaio di esperti di improbabili task force che hanno dato il loro contributo (telematico, in tempo di pandemia) generando più caos di quanto si potesse immaginare.

Il copione della farsa è di quelli già scritti, con l’Italia dei paradossi, delle burocrazie, delle realtà che si fa finta di non vedere, ma anche della concorrenza intelligente degli altri Stati d’Europa i quali intanto si sono già prontamente organizzati per una degnissima ripartenza collaborando tra loro ed escludendo (giustamente) noi disorganizzati e farraginosi italiani, a cui poi presenteranno semplicemente il conto. E la solita ramanzina per aver sprecato ogni risorsa.

Sarà un conto impossibile da pagare poiché nel frattempo il motore del paese risulterà bloccato dal panico sociale e sanitario indotto nella popolazione, dagli aiuti di sola sussistenza temporanea, dalla mancanza di piani lungimiranti e, non ultimo, dall’arresto dei settori portanti come quello automobilistico, manifatturiero e - soprattutto - turistico (dove è stato, tra l’altro, ignorato l’insieme trainante di piccole strutture come b&b e case vacanza), per il quale un modesto bonus e un’esenzione fiscale non bastano certo ad arginare la catastrofe.

I topolini, partorendo una montagna di paradossi e inutili provvedimenti, lasciano sulla strada vari fallimenti come l’App “Immuni” già inutile al concepimento, i siti hackerati, o la comica altalena sulle mascherine, ma anche un bilancio ben più drammatico di morti, di suicidi, di odio sociale, di imprese chiuse, di una sanità non riorganizzata e dunque incapace di fronteggiare eventuali nuove emergenze, di posti di lavoro persi, e anche di licenziamenti e sfratti.

Sarebbero, questi ultimi, attualmente vietati per legge, eppure di fatto sono già eseguiti ed eseguibili nei meandri del nero e del sommerso tutto italiano di cui ancora una volta ignora o si punisce l’esistenza ma che pure, a suo modo e benché fiscalmente illegale, muoveva in gran parte l’economia.

Sulla strada dissestata degli improvvisatori, resta pure il cadavere della socialità, uccisa in famiglia, nelle amicizie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, in ogni luogo di ritrovo. Abolita d’ufficio dallo smart-working, dalla didattica online, e dai distanziamenti, e in nome di una pandemia di cui si conosce ben poco e che dunque potrebbe riservarci belle o brutte e sorprese. Il governo, intanto, nell’incertezza, si è ben attrezzato a respingere quelle belle, ma non è affatto pronto a fronteggiare quelle brutte.

Le parole e le promesse del governo sono state tutte mirate agli aiuti e all’assicurazione di non lasciare solo nessuno, ma poi sono arrivate soltanto le scuse, e ancora impegni su cifre da capogiro che però non corrispondono a liquidità effettivamente erogabili. Sono frutto, infatti, in massima parte di calcoli fondati su crediti d'imposta a “babbo morto” (meglio sarebbe dire a impresa fallita), su bonus non liberamente gestibili, su troppe condizionalità e burocrazia.

Più generalmente e concretamente ci si basa insomma soltanto sulla fiducia che imprese e cittadini - in condizioni di assoluta emergenza - dovrebbero accordare al governo di Giuseppe Conte. Che forse ha pure avuto qualche buona idea e sicuramente le migliori intenzioni, e che dunque si potrebbe pure sostenere e incoraggiare, ma... - parafrasando una battuta di Titina De Filippo in un vecchio film di Totò - «Sempre però che Peppino non foste voi!».

ANDREA JELARDI