''Il mio Vorrasi. I colori del cuore'' In primo piano

In questo periodo caravaggiesco di contrasto fra buio e luce, la mente spesso si rifugia nella tavolozza delle emozioni, dai colori forti e vibranti, e dei ricordi, dai colori tenui e delicati.

Così prende corpo la figura di un giovane ragazzo non ancora maggiorenne, immerso nell’universo di una fantasia senza limiti, intento a cimentarsi con il disegno a carboncino, a sanguigna, a china. A guadagnarsi qualche spicciolo con la creazione di posters, colorati con diversi inchiostri, da vendere ai propri coetanei.

Preso da una passione crescente, questo incosciente neofita autodidatta, si avventurava in tecniche sempre nuove e diverse, come l’incisione a bulino su linoleum, la realizzazione di stampi di antiche monete e la loro fusione in piombo.

L’esasperante “giovin Leonardo” ero io.

Fu allora che mio padre, un po' per assecondare questa inclinazione un po' (credo, forse, in prevalenza) per evitare che continuassi a fare danni in casa (le fusioni avevano molto allarmato mia madre, perché … la fonderia era la nostra cucina), si rivolse ad un suo amico e stimato artista sannita, il Maestro Pompeo Vorrasi, chiedendogli se qualche volta avesse potuto ricevermi nel suo studio di Fragneto Monforte, nella speranza che sarebbe riuscito a dissuadermi dal perseverare in questa irrefrenabile passione.

Il mondo dell’arte non ne avrebbe sofferto. Anzi!

Cominciarono così i viaggi in motorino a Fragneto Monforte a casa del Maestro e gli indimenticabili pomeriggi insieme.

Il primo impatto fu traumatico.

Ero un disegnatore anarchico che non rappresentava la realtà per quello che era, ma la distorceva secondo la sua percezione, senza il rispetto di alcuna regola.

Nel suo bellissimo studio, un effluvio di luce penetrante dalle vetrate affacciate sul mare di tetti sottostanti, mi mise davanti una testa di marmo di un giovane romano ed una tavolozza di legno sulle gambe sulla quale era fissato un foglio immacolato.

Mi diede una matita e disse: “Ugo, riproducila, facendo attenzione alla proporzione, alla prospettiva ed alle ombre”.

Arrivai ad odiare il busto dell’incolpevole giovane romano, ma dopo diverse sedute a riprodurlo fedelmente.

Ero entusiasta, ma la perfidia del Maestro non aveva limiti. Mi faceva cambiare continuamente l’ombreggiatura a secondo del cambio della luce. Mi ribellavo dicendo che era ovvio che nel corso di una giornata la luce cambia continuamente e non potevo rappresentarne la dinamicità perché il disegno cristallizzava la luce del momento.

Sorrideva e mi diceva: “Ugo, forza, ombreggia ancora una volta; dai che è l’ultima”.

Poi mi offriva una bibita e mi svelava i canoni della tecnica da applicare e gli errori da non ripetere.

Man mano che si andava avanti ci si conosceva meglio, si acquistava una maggiore familiarità, fino ad arrivare ad intendersi con un semplice sguardo.

Insomma: mio padre sperava di scoraggiarmi; il Maestro, con grande incoscienza, mi incoraggiava.

Con l’addentrarsi della bella stagione mi portava spesso in campagna, Lui a dipingere, io a disegnare il paesaggio ed a cimentarmi, qualche volta, con la tela.

I contadini, che lo conoscevano, ci portavano frutta e limonata fresca.

Stavamo lì per ore, parlando di tutto con qualche inevitabile intervallo dedicato alle direttive tecniche. Il tempo era sospeso, non passava mai anche se volava. Una sensazione di libertà, di serenità e di bellezza che non ho più ritrovato.

Qualche volta andavamo a trovare il Duca, nel suo bellissimo palazzo al centro di Fragneto Monforte. Un arzillo vecchietto amico del Maestro, simpatico e cordiale. Insomma, il buon Vorrasi mi aveva quasi adottato ed avvolto nel manto del suo grandissimo affetto. Io ne ero affascinato. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito.

Purtroppo, nonostante i Suoi incoraggiamenti, la nave della vita mi ha portato in altri porti. Ho abbracciato la croce della professione forense; sofferta scelta di passione, coraggio ed incoscienza.

I nostri rapporti si sono diradati fino a scomparire. Per colpa mia.

Poi un giorno mi ha telefonato allo studio: “Ugo, come stai. Ti faccio i complimenti per le tue pubblicazioni. Mi farebbe piacere vederti. Vienimi a trovare”.

Uno shock. Il Maestro si è ricordato dell’allievo più scadente. Ha rimesso in moto nel mio animo un guazzabuglio di emozioni dai colori accesi e dalle pennellate potenti, come un quadro di Van Gogh.

Mi sono commosso ed ho promesso che sarei sicuramente andato a trovarlo, ma Lui ci ha lasciato poco dopo.

Ogni tanto ci ripenso e Lo rivedo in campagna, intento a dipingere con accanto quel giovane al quale ha regalato un bellissimo sogno e colorato per sempre il cuore.

Grazie Maestro.

UGO CAMPESE