La Diga di Campolattaro: a chi i costi, a chi i ricavi In primo piano

Durante la presentazione del libro “L’altra Campania”, ha suscitato qualche sorpresa il richiamo fatto dal prof. don Mario Iadanza, sui danni di vario tipo che subiscono le comunità del medio Tammaro a seguito della costruzione della diga di Campolattaro.

Quello che finora abbiamo conquistato è la presenza della nebbia e delle zanzare e la trasformazione di agricoltori in disoccupati”. Qualche ascoltatore forse è rimasto sorpreso da questa espressione se non ricorda quello che accadde quarant’anni fa all’epoca della sottrazione alle colture agrarie di una vasta pianura per farne un invaso artificiale. Tuttavia non si può dire che quell’invaso sia stato costruito senza alcuna positiva finalità per l’area del Tammaro.

La diga fu progettata con due finalità: la prima era di frenare l’acqua straripante per evitare altre alluvioni, come quella del 1949 che, tra l’altro, procurò venti vittime umane; la seconda, non meno utile, era di raccogliere l’acqua autunnale ed invernale per distribuirla d’estate, quando ne avevano bisogno i campi ai fini dell’irrigazione agricola. La prima finalità è stata quasi totalmente raggiunta, la seconda non è stata ancora chiaramente definita almeno per la Valle del Tammaro.

Queste incertezze, comprensibilmente, alimentano i dubbi, e non solo in mons. Iadanza. Io mi sento di sottoscrivere le sue perplessità, tuttavia con questo non voglio dire che ormai non vi sia più nulla da fare per evitare lo sfruttamento di tutta quell’acqua e quindi per mettere il territorio del Tammaro e della media valle del Calore in condizione di recuperare concreti vantaggi.

Da circa tre anni stiamo assistendo a ripetuti proclami di finanziamenti da parte del presidente della Regione, condivisi dal presidente della Provincia e da vari sindaci: circa 500 milioni di euro per costruire, tra l’altro, il traforo che dovrebbe trasferire l’acqua da Campolattaro a Ponte, dove verrebbe realizzato il centro di diramazione; e da lì partirebbe l’acqua per irrigare, in piccola parte, la Valle Telesina ed, in gran parte, l’Alifano casertano (4.900 ettari nel Sannio, dove peraltro quei terreni sono già irrigati da cinquant’anni con l’acqua del Titerno; e 14.000 ettari in provincia di Caserta). Come si vede, il Sannio, da cui proviene tutta quell’acqua, con questo progetto incasserebbe soltanto briciole.

Ma anche per il progetto di potabilizzazione c’è di che preoccuparsi. Difatti, chiediamoci perché dovremmo andare a produrre, artificialmente e con un alto costo, l’acqua potabile che tuttora disperdiamo abbondantemente, a causa dell’inefficienza degli acquedotti. Pare che il Sannio sia una delle prime provincie d’Italia nella triste graduatoria della dispersione dell’acqua potabile, quasi il 60%.

Quindi chiediamoci perché nessuna autorità sannita abbia proposto un progetto, nell’ambito del PNRR, per rendere efficienti gli acquedotti comunali e quindi evitare la dispersione di acqua naturalmente potabile. Qualcuno potrebbe insinuare che l’acqua del Tammaro, così potabilizzata, non servirebbe al Sannio, ma ad altre zone della Campania.

Per quelle grandi opere idrogeologiche che si vorrebbe costruire nel Sannio - ma non per il Sannio - si continua a battere le mani in più ambienti politici e non solo, ma forse soltanto perché sono opere molto consistenti sul piano finanziario, a prescindere dalle aree della Campania cui sarebbero destinati i relativi servizi. Oggi non si ci preoccupa tanto della natura delle opere pubbliche, né dei servizi che esse producono, ma soltanto del loro valore finanziario. Questo è uno dei peggiori difetti della classe politica meridionale. Contano i soldi, e basta!

Ed, a proposito di irrigazione agraria, quante volte dobbiamo ripetere che in questo campo l’esclusiva competenza spetta ai Consorzi di Bonifica, e nel caso specifico al Consorzio Sannio Alifano, che finora non può agire, né nella Valle del Tammaro, né in altri territori a monte di Ponte. E pertanto sarebbe il caso di chiedere alla Regione di assumere il necessario provvedimento volto ad estendere l’area di competenza di quel Consorzio a tutta la provincia; altrimenti permangono le attuali condizioni di abbandono, con la sola conseguenza di subire la fastidiosa presenza di nebbia e zanzare, come giustamente lamenta mons. Iadanza.

Con questo non voglio dire che quello che non si è fatto finora non possa farsi domani, per evitare che da una parte restino solo i costi e da un’altra vadano tutti i ricavi. Certamente si potrà cambiare e fare meglio, se però non ci si fermerà alla conta dei finanziamenti pubblici concessi.

ROBERTO COSTANZO