Il Majo di Frasso Telesino Cultura

Il viaggio tra le geografie culturali sannite diventa suggestivo nelle terre di Frasso Telesino. L’8 maggio di ogni anno, il piccolo centro ai piedi del monte Taburno diventa scenario del Majo: rito propiziatorio del Cristianesimo altomedievale, che celebra l’apparizione di San Michele.

L’Arcangelo guerriero protettore dei cavalieri erranti non è altro che un’interpretazione longobarda di un precedente mito pagano: Ercole, nume dei viandanti e dei pastori, oggetto di devozione da parte dei Romani, che la trasmisero ai Sanniti prima e dopo la colonizzazione.

I riti del Majo hanno come protagonisti i boschi locali rimasti intatti da secoli; oggi si celebrano nel territorio di Sant’Agata de’ Goti, in contrada San Pietro, Melizzano e appunto Frasso Telesino. Tre punti nevralgici dell’antica Saticola, la città sannita colonia romana di Diritto Latino nel IV secolo a.C.

Qui sono state ritrovate necropoli, aree sacre, mura di cinta, depositi commerciali, che ne ‘attestano’ definitivamente l’esistenza nell’area compresa fra il versante ovest del monte Taburno, l’Isclero e il Volturno. Si tratta di Vici e Arx, luoghi sanniti usati per la sosta durante la transumanza ed il rifugio delle greggi in caso di pericolo. Naturale, quindi, chiedere la protezione di Ercole e più tardi di San Michele!

Una consuetudine che i frassesi non tralasciano, come ci racconta Alex Gisondi, dottore in Storia, Antropologia e Religioni alla Sapienza di Roma e Mediatore Culturale per UCRI e UNAR presso la Presidenza del Consiglio. Come studioso dei riti del Majo di Frasso Telesino si dedica alla loro divulgazione attraverso il coinvolgimento dei giovani del luogo, che non hanno nessuna voglia di dimenticarsene.

Quest’anno il senso di appartenenza alle proprie radici e al paesaggio locale lo hanno trasmesso anche a Melizzano, che ha recuperato il rito dopo anni di oblìo. Ci spiega Alex Gisondi: “Agli albori del rito dovremmo partire dalla Frigia l’antica Persia, dove si praticava il rito di Mitra; diffuso a Costantinopoli viene adottato dal cristianesimo orientale, giungendo fino all’antica Capua. Attraverso i Longobardi si diffonde sottoforma del culto micaelico che parte da Benevento, capitale della Longobardia Minor. Il primo punto di sviluppo è la grotta di San Michele presso il Gargano”.

Il centro del Culto micaelico frassese è infatti l’Eremo di San Michele, che si trova in San Michele in Campo Scuro, sul monte Sant’Angelo: luogo ricco di faggete ombrose quasi impenetrabili, dove non trapela raggio di sole.

Secondo Alex “L’Eremo conserva gli elementi tradizionali dell’antico culto: la grotta sacra e due vasche molto grandi che raccolgono l’acqua piovana, usate per abbeverare gli animali in montagna. Collegata alla grotta c’è la pratica dell’incubazio: dormire nella grotta sacra per ricevere la grazia, invocata dal devoto di San Michele. Il culto va a legare gli elementi terra, acqua, fuoco e aria: l’elemento dell’aria è dato dall’alta quota delle alture”.

Il rito pone la Natura e il Paesaggio al centro della vita sulla Terra. Alex Gisondi ce lo descrive così: “Nei giorni del 6 e 7 maggio inizia il rito arboreo, che anticamente aveva un significato animista: l’albero metteva in contatto gli esseri umani con la divinità attraverso i rami e le radici, unione tra terra e cielo. Il nome Majo indica il rito in generale; ma tecnicamente è incentrato sul tronco d’albero detto ‘metalo’ termine greco che significa ‘al centro’.

Alex Gisondi ipotizza per “Frasso” un ruolo di vedetta alle pendici del Taburno. Nella contrada più antica, Terravecchia, ci sarebbe ancora una torre di avvistamento: il nome deriva da un termine greco, che significa ‘fare la guardia’; mentre la posizione farebbe pensare ad una Arx sannita, connessa alle mura di cinta ritrovate a Melizzano.

Continuando sul Majo: “Ogni quartiere taglia un tronco d’albero dalla chioma folta nei boschi, perchè dal bosco sacro i popoli antichi traevano la forza da infondere al centro abitato: esattamente come avviene con l’albero di Natale! Il Majo viene privato dei rami giovani restando solo con la chioma. Si conficca nel terreno simboleggiando la fecondazione della terra. Si brucia per rigenerare la terra purificandola da ciò che è vecchio, per buon auspicio. Prima di partire per la transumanza, anche le greggi venivano fatte passare attraverso il fumo sprigionato dal Majo ardente, per la purificarle e renderle prolifiche”.

Il rito del Majo è anche un’occasione straordinaria di condivisione sociale. Gruppi di giovani raccolgono il frutto delle potature disponendo la legna a forma di cono intorno ai pali del metalo. Li abbelliscono poi con fiori di Ginestra colti nella piana di Prata. All’imbrunire la comunità riunita attinge con fiaccole da un braciere comune nella piazza; dopo una solenne benedizione cristiana, va in processione presso ciascun Majo di quartiere, dando il fuoco.

Gisondi precisa un particolare importante: “Durante l’accensione si intona il Moifà, canto polifonico sull’amore sacro e profano tipico di Frasso Telesino. Al termine della processione ogni quartiere organizza un convivio che dura fino all’alba, mentre i roghi continuano a bruciare. Si spengono da soli entro il giorno seguente. Nell’antichità il legno carbonizzato veniva sparso nei campi per buon auspicio o calpestato dalle greggi prima di avviarsi nella transumanza.

L’8 maggio il rito continua portando la statua di San Michele dal centro abitato alla chiesa accanto alla grotta e alle vasche d’acqua. La funzione religiosa si tiene in una radura, chiaro ricordo dei riti pagani longobardi. La giornata si conclude presso l’eremo con una colazione sull’erba, trionfo del convivio che da secoli celebra la gioia di vivere.

Ma il rito del Majo non finisce qui: la statua di San Michele, in pietra viva del Gargano, resta per tutta l’estate presso l’Eremo, a disposizione dei fedeli che amano anche lo splendido paesaggio dall’altura. Torna in paese solo il 29 settembre, giorno di San Michele. Peccato che con le nuove norme imposte dall’Ente Parco del Taburno sia vietato il campeggio che gli abitanti di Frasso usavano praticare durante il Majo, come gli antichi pastori. Una tradizione che il vincolo UNESCO dovrebbe tutelare, di cui l’Istituto Storico del Sannio Telesino ha parlato nel maggio del 2022 in un convegno presso il Comune di Frasso, con il compianto Michele Selvaggio.

ROSANNA BISCARDI