La dea che fuma Cultura
Sono femminili certe ricorrenti tipologie artistiche che portiamo impresse nella mente almeno dal tempo dei Sanniti. Femminilità erotica non ne esprimono, anzi sembrano asessuati esseri alieni a chi non sa notare che oggi penetrano anche l’immaginario di Mimmo Paladino, artista ‘sannita’ che qualcuno insiste a definire ‘campano’ temendo che nominarne la specifica cultura d’origine possa negare la sua geniale apertura al contemporaneo globale. Quelle figure incutono paura per il loro rapporto con un inconscio arcaico, un universo ancora da studiare nel suo versante creativo per contestare finalmente una tradizione che in Italia continua a relegare nel ‘primitivo’ l’arte distante dalla classicità.
La femminilità è assente in quel tipo di figure perché rinunciano ad imitare il vero. Protagonista in esse è l’atteggiamento ieratico, anzitutto il volto con capelli accennati o schiacciati a caschetto, occhi fissi spalancati senza sopracciglia, naso a rilievo allungato verso la bocca chiusa, elementi geometrici che danno sembianza umana all’ovale della testa. Le opere qui riprodotte segnano momenti antichi e raggiungimenti attuali di quel processo plurimillenario, sono manufatti di artisti sanniti del quinto secolo avanti Cristo e di Mimmo Paladino accostati alla rinfusa: invito il lettore a interrogarli e distinguerli.
La paura dell’alieno la conobbero i romani quando vennero alle prese col diavolo, cioè con i sanniti. E invece non doveva incutere paura una dea presente da sempre nel Sannio, pacifica, signora del ‘panta rei’, di ciò che passa e magicamente non resta mai uguale, come fa l’acqua che sgorga dalla terra, cambia temperatura scorrendo dove le pare e infine evapora. I sanniti chiamavano Mifineis, dea di mezzo, quella divinità in bilico tra l’esserci e il non esserci, a lei ricorrevano per trasformare le malattie in buona salute, adeguare campi e sorgenti alla vita, rendere feconde le greggi e le donne, favorire commerci e scambi. Una dea moderna, a pensarci, simbolo dei valori del nuovo che emerge in continuazione, dello scambio di idee e di cose. Eppure i romani non la capirono, la chiamarono poi Mefite quando la trovavano venerata presso acque malsane. Da allora identificarono i luoghi sacri a Mifineis con le “porte degli inferi” e il mefitico col maleodorante.
Passando per Benevento, Virgilio venne a sapere della famosa “porta degli inferi” nella Valle d’Ansanto, dove sono state recuperate sculture della dea Mefite custodite oggi nel Museo Irpino di Avellino. Nell’Eneide la descrisse così: “lì un fragoroso e tortuoso torrente rumoreggia tra i sassi e vi si osserva una orrenda buca, la porta dell’orribile Inferno: la smisurata voragine spalanca la sua bocca pestifera per lo straripamento del fiume Acheronte”. La descrizione è perfetta per quel che si vede ancora oggi lì, a pochi chilometri da Benevento.
Quel luogo andrebbe integrato al turismo culturale del nostro territorio che purtroppo alle province limitrofe pensa poco o nulla: sconosciuta ai beneventani, la Mefite rimane un tesoro sprecato col suo paesaggio di colline silenziose, testimoni di una storia che ci appartiene. Da lontano segnala la sua presenza con l’odor di zolfo, e avvicinare la fenditura della terra si può ma non si deve, assolutamente, perché da essa fuoriescono vapori assassini, minerali grigiastri, sabbie mobili, acque ribollenti. Un attrezzato punto di osservazione con pannelli didattici mostra ben chiaro l’avviso PERICOLO DI MORTE. Vale per chi sa leggere. Due grossi cani, avventuratisi verso la fenditura maligna, giacciono distesi tra i bollori eterni del terreno, uccisi dalle esalazioni di Mefite, la dea che fuma ispirando gli artisti, espirando morte.
ELIO GALASSO