Covid e fake news: la crisi del giornalismo di oggi Società

La professione alla prova dell’emergenza Covid-19”, questo è il titolo del rapporto dell’Osservatorio sul giornalismo Agcom (Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), un’Autorità Amministrativa indipendente che ha messo in luce alcune problematiche del mondo dell’informazione dalle quali scaturiscono (o comunque dovrebbero scaturire) importanti considerazioni.

L’allarmante dato emerso è che il 73% dei giornalisti italiani si è imbattuto in fake news durante l’emergenza covid-19 (il 78% di questi almeno una volta a settimana, mentre il 22% addirittura una volta al giorno). Il dito viene puntato principalmente contro i social, che risultano essere costitutivamente (almeno per ora) fonte continua di fake news.

Nel lavoro del giornalista, in un mondo ultra digitalizzato come quello odierno, assume una sempre maggiore importanza il “debunking”, ovvero la pratica del mettere in dubbio o smentire (basandosi su metodologie scientifiche) affermazioni false, esagerate o antiscientifiche.

Il problema è che, mentre si evince come il 63,5% dei giornalisti abbia dichiarato di aver adottato pratiche per individuare e analizzare notizie false riguardanti l’emergenza Covid-19 (la quasi totalità tramite strumenti digitali), solo 1 su 5 ha effettivamente prodotto articoli di fact-checking. Dunque uno scarso 20% dei giornalisti ha effettivamente svolto una verifica dei fatti (e solo 1 su 20 ha potuto poi verificare effettivamente dal vivo, ad esempio tramite conferenze stampa o discorsi pubblici, ma per ovvie “implicazioni pandemiche”).

Dunque, il compito di filtraggio di informazioni, in particolare in questo caso dalla comunità scientifica, che il giornalismo dovrebbe svolgere non è stato adempiuto a dovere. La crisi che il settore sta vivendo, della quale il covid è stato un mero catalizzatore, rischia di mettere in discussione le fondamenta stessa del giornalismo e il suo ruolo cruciale per la collettività. Anche a Benevento un sistema d’informazione mal strutturato ha messo a rischio la campagna vaccinale costringendo le varie autorità ad intervenire. Ricordiamo, ad esempio, l’episodio del 21 marzo nel quale una falsa convocazione dell’Asl (condivisa migliaia di volte), inviata tramite mail, convocava i riceventi alla somministrazione del vaccino AstraZeneca presso Piazza Guerrazzi ad orario prestabilito. Inutile dire quanto questo episodio abbia contributo al clima di sfiducia in generale nei confronti delle vaccinazioni. Clima che a Benevento sembra essere particolarmente intenso, tanto da portare il sindaco Mastella a dichiarare all’Agi, il 12 di questo mese, che “Chi rifiuta il vaccino AstraZeneca va in coda, ma non è che non sarà vaccinato. Il vaccino viene fatto comunque”. Una preoccupante rassicurazione, che legittima il panico creato intorno al vaccino stesso.

In ogni caso, gli effetti che giornali locali, e in alcuni casi nazionali, possano provocare diffondendo notizie false, o comunque anche solo poco accurate, sono di gravità incalcolabile durante una crisi pandemica. Effetti che si aggravano, tra l’altro, quando i media generano terrore e panico, e la politica si ritrova costretta a rispondere a queste ondate di sgomento generale, senza avere il tempo o la possibilità di indagarne più a fondo le cause. In ogni caso, più che gli effetti, mi preme diagnosticare le cause che ci portano a vivere le situazioni paradossali che stiamo affrontando oggi.

Il fatto che il debunking non sia stato effettivamente funzionale, è dovuto sicuramente a una poco adeguata preparazione informatica (dal rapporto si evince anche come il 18% dei giornalisti italiani abbia scarse competenze tecnologiche), ma le radici del problema sono più profonde.

La crisi in atto è, infatti, da ricondurre a diversi fattori: la diffusione di fake news (che hanno investito anche testate nazionali) è il sintomo di criticità più profonde inerenti all’epoca che stiamo vivendo; i social giocano un ruolo cruciale, ma non sono il punto. In particolare, bisogna mettere in luce due “problemi” di fondo, la cui diagnosi può aiutarci ad orientarci meglio.

Da un lato, infatti, troviamo la tendenza post-moderna del giornalismo contemporaneo a far prevalere il racconto simbolico al mero fatto, il superamento della corrispondenza tra discorso vero e realtà. Mi riferisco al “prevalere del soggettivo sull'oggettivo, la diffusione dei features, i pezzi costruiti non tanto su fatti nudi e crudi quanto sulle storie a forte valore simbolico: dal resoconto al racconto” (Marco Benadusi). Lungi dall’essere una criticità, questa tendenza diventa problematica nel momento in cui il racconto giornalistico prevale sul fatto oggettivo al punto da distorcerlo, e le implicazioni di questo fenomeno durante una pandemia diventano, come già detto, colossali.

D’altra parte, entra in gioco la tendenza del ridurre la verità scientifica a oggetto di stima e valutazione (di computazione valoriale). Per rendere leggibili dati e ricerche scientifiche, si va incontro a una “formatazione” del sapere scientifico, un’opera di banalizzazione più che di riassunto, che porta inevitabilmente a incomprensioni sempre maggiori. Qui entrerebbero in gioco discorsi di natura filosofica sull’attuale regime valoriale nel quale si ritrova gettata la ricerca scientifica, ma il punto è proprio che vi sono, oggi, problemi di interazione con il mondo delle scienze (per questioni che non riguardano in senso stretto in mondo delle scienze stesso). E, durante questa pandemia, ne abbiamo avuto più di una prova.

ANTONIO SPINA