Distratti Società

Il decisionismo del governo Renzi può fare impressione, ma può fare anche danni. Il danno maggiore sarebbe l'inconcludenza, di cui si avverte qualche sentore. L'inesperienza della maggior parte degli attori della “grande riforma” può garantire della sincerità degli slanci, non certo della ineccepibile fondatezza di certi proclami.

In Italia non c'è bisogno di nuove leggi. C'è bisogno di forzare al massimo il meccanismo delle leggi che ci sono per verificare se possono resistere. Rimescolare il tutto per passare alla storia non porta, in genere, buoni frutti. Franco Bassanini è passato alla cronaca come le sue leggi, ma esse non sono altro che un rimescolamento di norme meglio scritte; anzi una negazione di quel modello di scrittura che si chiama “Manuale di Stile”. E sì, perché con legge è stato disposto come si scrive una legge, nonché come si scrive una lettera o un decreto (senza “combinato disposto”, “all'uopo”, “con riferimento alla precorsa corrispondenza”, etc.). C'è già la legge che prevede la licenziabilità dei dirigenti o il non rinnovo del contratto: tutti i dirigenti pubblici sono infatti a termine. E c'è quella che lega ai risultati ottenuti anche una quota della retribuzione. C'è (ci sarebbe) anche la valutazione, ma se governo e sindacati (che firmano i contratti) scrivono nel contratto dei dirigenti scolastici che la valutazione non incide sulle retribuzioni, si capisce che essi stessi decidono di prendersi (e di prenderci) in giro.

Nel 1994 è stato pubblicato il Testo Unico delle leggi della Pubblica Istruzione, un eccellente lavoro di revisione delle norme in vigore e di sistemazione delle materie. Non dovrebbe essere consentito al Ministro di invocare una norma del 1924 per affermare una strampalatezza: che cioè solo negli istituti professionali si possono chiedere contributi alle famiglie degli alunni.

Esaltati dal successo, i nuovi riformatori vanno sul sicuro. E' raro che qualcuno li contraddica, perché è raro trovare interlocutori documentati e, soprattutto, liberi di smontare generose prospettive di miracoli a portata di mano. Quanto più grande è la confusione tanto più necessaria e doverosa deve essere una operazione onesta e chiara di chi ammonisce a non fare ammuina.

Mentre fior di intellettuali (Claudio Magris, Giuseppe Galasso) ritengono sostanzialmente fallito il progetto regionalistico, è di questi giorni l'ipotesi di togliere di mezzo i prefetti e di metterne uno in ogni regione. Una ammescafrangesca istituzionale, tipica di una nazione che vuole tenere insieme il codice napoleonico e la costituzione americana. Un accentramento di competenze (e di sospetti reciproci) che dovrebbe apparire come un formidabile terreno di coltura di affarismi e corruzioni. Come è dimostrato, in questi giorni, dall'esplodere di nuovi scandali e ruberie.

La democrazia liberale aborre i grandi potentati, tende a limitari i poteri dello Stato, poiché l'attore della vita civile è il cittadino, non il funzionario statale: meno che mai il detentore (temporaneo) di un potere che, grazie al consociativismo, diventa perenne e inattaccabile.

E', quindi, necessario discutere di ciò che, invece, sembra appannaggio delle “segrete stanze”. Di tutto ciò che appare e scompare dalle pagine dei giornali.

Poiché prima o poi (meglio prima che poi) si dovrà arrivare ad una riforma complessiva del sistema di governo della Repubblica Italiana, partendo dall'assetto delle istituzioni territoriali, è il caso di sollecitare partiti e sindacati, associazioni e università affinché si dia la stura a vere forme di confronto per un esame delle possibili soluzioni.

Da un impianto che abbia una impostazione di fondo democratica e liberale (o, se si preferisce, liberale e democratica), si deve poi discendere nelle articolazioni funzionali, tenendo d'occhio i rapporti costi/benefici, l'accessibilità dell'utenza, la effettiva trasparenza che non può trascurare il suo rovescio e cioè il diritto del “intromissione” del cittadino che paga (con le imposte, le tasse e ogni altro balzello) il funzionamento del baraccone.

L'anno prossimo si vota per la elezione del consiglio regionale. Non sono solo le candidature le questioni che dovrebbero interessare i partiti e i cittadini, se nessuno sa che cosa devono andare a fare a Napoli i tre “rappresentanti del popolo” che usciranno fuori dal segreto delle urne sparse nelle parrocchielle della democrazia nostrana.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it

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