Gli smartphone e i rischi di una nuova schiavitù Società

Nell’ultimo film di Woody Allen, l’attrice Cate Blanchett interpreta una donna nevrotica ed esaurita, che arriva al punto di parlare da sola in mezzo alla strada, seduta su una panchina. Il regista newyorchese non ha pensato forse, quando ha scritto la sua ultima pellicola, che oggi un comportamento del genere sarebbe socialmente accettabile, a condizione che la persona che parla da sola porti un auricolare all’orecchio, collegato ad un telefono cellulare.

Obiettivamente, fino a un decennio fa o poco più, vedere qualcuno parlare da solo ad alta voce non era uno spettacolo comune e, quando si verificava, era chiaramente visibile il telefonino attraverso cui dialogava con l’interlocutore dall’altra parte. Oggi che invece i cellulari sono più piccoli, discreti, quasi invisibili e gli auricolari minuscoli e senza filo, la differenza tra un soggetto bizzarro che parla da solo ed un professionista impegnato in una conversazione di lavoro è diventata davvero sottile.

Non vi è mai capitato d’incrociare un estraneo, sentirlo parlare e per un attimo pensare che si stia rivolgendo a voi, per poi rendervi conto, magari dopo avergli anche rivolto la parola, che in realtà sta parlando al telefono con qualcuno che forse si trova a centinaia di chilometri di distanza? Non preoccupatevi, non avete fatto una figuraccia: è un inconveniente che oggi capita sempre più spesso.

I cellulari, nella fattispecie gli smartphone, che oggi hanno quasi completamente sostituito il vecchio telefonino con il quale si poteva solo parlare e scambiare sms, sono ormai divenuti un’appendice o addirittura una protesi per un numero di persone sempre crescente. Manager e dirigenti anche di basso livello non se ne separano mai e soprattutto non lo spengono mai,

consultandolo durante la pausa pranzo e prima d’andare a dormire. In molte aziende è divenuta la prassi fornire agli impiegati un telefonino aziendale (ai dirigenti addirittura un tablet aziendale), per avere la certezza che questi siano reperibili sempre e ovunque.

Ne risulta così che questi lavoratori, siano dipendenti o liberi professionisti, si tramutano in schiavi della reperibilità. Gli smartphone, sia pure in maniera meno opprimente, diventano per loro una versione moderna dei ceppi con cui gli schiavi addetti ai remi erano incatenati nelle galee romane.

Un Ben Hur contemporaneo sarebbe incapace di separarsi dal suo telefono, il quale scandirebbe il ritmo della sua giornata lavorativa con la stessa severità di un antico negriero.

Certi individui sono talmente assuefatti all’uso di questi apparecchi, che non smettono affatto di lavorare nel momento in cui la loro giornata lavorativa si conclude. Presto i sindacati e gli esperti di diritto del lavoro dovranno porsi nuovi interrogativi relativi a questo modo di lavorare: quante ore al giorno si può pretendere che un dipendente trascorra a controllare le mail? Se qualcuno inciampa in strada o viene investito da un’auto perché intento a scorrere il menu dello smartphone, si può parlare di un infortunio di lavoro?

In questo modo si perde anche il senso di quelle che sono le pause concordate, ovvero appunto interrompere, distogliere per un breve tempo l’attenzione dalla routine lavorativa quotidiana per lasciar riposare la mente, oltre che il corpo. Ciò anche al fine di riprendere a lavorare più concentrati, in maniera più produttiva. Tanto lavoro senza sosta invece, a lungo andare, non giova alla produttività del lavoratore, anzi lo rende via via più stressato e nevrotico.

Meglio spegnere ogni tanto il diabolico apparecchio ed allontanare il pensiero da quello che, pur essendo un dovere (e un diritto, sancito anche dalla nostra Costituzione), non può diventare un’ossessione. L’uomo lavora per vivere, ma non vive per lavorare.

Saluti dalla plancia,

CARLO DELASSO

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