La tracciabilità. Nuovo supremo collante dell'unità nazionale Società

So che nei Paesi più modernizzati le carte di credito (e ogni altro strumento di pagamento elettronico) fanno parte del costume di ogni fascia sociale. In Inghilterra, già venti anni fa, si pagava il giornale con la carta ed era visto come un marziano il povero italiano che da Burberry's si apprestava a pagare in contanti.

Da noi è invalsa la convinzione che “si caccia” la carta solo quando bisogna fare pagamenti consistenti. Eppure ormai quasi tutti i commercianti hanno la “macchinetta”.

Il nuovo governo, con la scusa dell'emergenza, ha reso obbligatorio l'uso dello strumento elettronico fin da somme non particolarmente elevate. E lo ha reso sia per i pagamenti che per le operazioni in entrata. Il caso più emblematico è quello dei pagamenti degli stipendi e delle pensioni. L'italiano è affezionato alla Posta. Quando fa la fila esprime il meglio di sé: inveisce contro i governanti, critica la lentezza delle signorine dietro lo sportello, vorrebbe parlare col direttore, guarda nervoso l'orologio, promette che alle prossime elezioni non andrà a votare. Non gli passa per la testa che quelle ore perse nell'ufficio postale potrebbe consumarle in esercitazioni meno intossicanti.

Fui un pioniere dell'accreditamento in conto corrente degli stipendi pubblici. La lunga fila alla Banca d'Italia non era altro che un rito collettivo alimentato dall'unico sentimento di fottere legalmente lo Stato (potendo pure fare la spesa al mercatino di piazza Risorgimento). Ora la Banca d'Italia non esiste proprio più.

Dunque, condivido ciò che ha disposto il governo e sta legiferando in questi giorni il Parlamento? Nella maniera più assoluta no, e poi no.

L'obbligatorietà dell'uso dei marchingegni elettronici, infatti, viola una carretta di principi fondamentali della nostra Costituzione (e di qualsiasi patto sociale presupposto ad un sistema giuridico di stampo liberaldemocratico). Li violerebbe comunque, ma qui i salvatori della patria hanno deciso che la obbligatorietà dei pagamenti elettronici (in entrata e in uscita) è preordinata a facilitare l'attività di controllo che l'Agenzia delle Entrate deve fare sul conto non solo dei contribuenti, ma di qualunque cittadino. In uno stato di diritto la parità formale e sostanziale tra governanti e governati non può essere violata fino al punto di sopprimerla. Perché qui di questo si tratta: della soppressione di qualsiasi legittimazione del cittadino ad agire in un ambito strettamente privato con la garanzia della riservatezza, sia nei confronti dei suoi simili e sia nei confronti dello stato. Che è stato immaginato al servizio della persona, non viceversa.

L'Agenzia delle Entrate non può munirsi di poteri (e strumenti coercitivi) tanto forti da impedire materialmente al cittadino-contribuente di commettere un errore, di trascurare un adempimento, addirittura di evadere una imposta. Questo potente Grande Fratello può solo indagare circa eventuali evasioni e, col rispetto delle regole procedurali (poste evidentemente a tutela del cittadino ancorché, nella specie, possibile evasore), mettere in atto iniziative “successive” preordinate ad escutere quanto (volontariamente o meno) era stato “nascosto”.

Il sistema escogitato assegna, invece, alla Agenzia delle Entrate il ruolo di controllore sistematico (e preventivo) della moralità pubblica di ormai tutti i cittadini. E proprio questa funzione di garante della moralità riesce a piacere al cittadino comune (tipizzato in quello che fa la fila alla Posta), ma pure a non pochi cittadini “speciali” (nel senso di abilitati a ragionare con la propria testa). Anziché sperare e agire in modo che crescano la consapevolezza e la responsabilità individuale nell'adempimento dei doveri di status, si auspica (e si accetta) quella che una volta si chiamava la “inversione dell'onere della prova”.

Quando c'era il diritto “civile”, il “peccatore” lo si beccava non prima che avesse effettivamente peccato. Adesso siamo tutti peccatori. Ognuno si prepari non a fornire giustificazioni ma ad ammettere di essere un insanabile e incorreggibile peccatore a tutto campo.

Non sto qui a prevedere che, una volta disposta la generalizzazione delle carte di credito, le banche avranno buon gioco a farsi pagare le spese di tenuta del conto. Adesso no, ma quando non sarà possibile sottrarvisi, alla faccia dell'Autorità garante della Concorrenza, i correntisti saranno tenuti sull'attenti da potenti “cartelli” (i prezzi della benzina e del gasolio non sono, per caso, liberi?). Sto qui a proclamare che i mie doveri di cittadino non possono, mai e poi mai, limitare (o addirittura annullare) le mie libertà fondamentali.

Non per combattere la mafia io non posso tenere riservati pagamenti ed elargizioni che provengono da legittime e personali (e, perciò, insindacabili)decisioni.

Si dirà che l'Agenzia delle Entrate seguirà scrupolosi codici rispettosi della riservatezza. Non ci sono garanzie circa possibili abusi. Così come non ci sono garanzie circa l'uso improprio delle immagini fornite dalle mille telecamere sparse un po' dovunque.

L'italiano corrente apprezza ed approva ogni misura atta a limitare la altrui tendenzialità a fare danni. Non si accorge che resta totalmente disarmato di fronte alle agguerritissime postazioni del nuovo stato moralizzatore. Che ha, di fatto, abolito - in nome della tracciabilità, nuovo collante supremo dell'unità nazionale - anche la libertà di fare un regalo al nipotino all'insaputa della nonna.

Personalmente ho la carta di credito, ho la carta prepagata e, dal mio computer, faccio la ricarica del cellulare, pago i contributo alla colf e pago la TARSU. Faccio tutto questo usando della mia libertà, e non ho paura di essere “controllato”.

Non ritengo che la Repubblica Italiana abbia il diritto di sapere se mangio la pizza, se compro gioielli, se vado al cinema, se vado a donne.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it