Lasciateci sognare, per favore! Società

Fin da piccoli, ci insegnano a credere nei nostri sogni. Ad alimentare l’intima convinzione secondo cui siamo unici, speciali, insostituibili. Che in noi risiede la chiave della rivoluzione. Eppure, raggiunta la maggiore età, quando si abbandona il nido per spiccare il volo verso l’avvenire, la musica cambia.

Improvvisamente si definisce eretica l’idea di avventurarsi oltre le colonne d’Ercole, sfidare le convenzioni, i pregiudizi e le aspettative.

A un giovane di buone speranze viene proposto un piano di vita da venerare ciecamente: scegli una facoltà “degna dei tuoi sforzi”, trovati un lavoro ben pagato e a tempo indeterminato entro la soglia dei trent’anni, sposati, compra una casa e una macchina, diventa genitore. Il futuro perfetto del cittadino dignitoso e solerte. Ragazzi confusi, indecisi e tentennanti annegano nel marasma di “affettuosi suggerimenti”da parte di parenti, insegnanti e persino supponenti sconosciuti, per poi ritrovarsi a scegliere affrettatamente percorsi che non offriranno mai alcun tipo di soddisfazione sostanziale.

Uno dei maggiori danni del crescere in una piccola città antiquata è lo sviluppo, graduale ma ineludibile, di un morboso attaccamento alla propria “reputazione”. In una realtà ristretta, tutti conoscono i tuoi genitori, la tua situazione familiare, la tua condizione economica, ogni conquista e ogni caduta si aggiunge a un’immagine delineata dalla collettività.

Ma a porte chiuse, nella quiete dell’assenza di giudizio, non ci si può ingannare. Si deve fronteggiare a testa alta il proprio riflesso, divenuto ormai il prodotto dell’influenza di una comunità di ombre di individui annegati nella massa, incapaci di rispondere alla domanda che tutti dovremmo porci ogni singolo giorno al nostro risveglio: “Cosa conta davvero?”. Conta il prestigio? Contano i riconoscimenti? Conta il denaro? Sono questi i valori per cui vale la pena sacrificare la propria identità? Non credo. Ma, inesorabilmente, il disincanto si fa strada nella nostra mentalità e ne assume il monopolio. Viviamo, anzi, ci limitiamo ad esistere in un’epoca in cui nessuno ha l’ardire di sognare in grande. Leggendo “Il mestiere di pensare”, un libro di Diego Marconi, mi sono accorta che persino i filosofi si sono rassegnati alla mediocrità, all’ordinarietà. Nessuno pecca di superbia, tracotanza, temerarietà al giorno d’oggi.

Nessuno ha voglia di mettersi alla prova, di crollare in grande stile. Si ammira la confortevolezza delle mezze misure. E i pochi che osano definirsi “sognatori” lo fanno per gonfiare il proprio ego, per darsi un tono, per apparire profondi. In tempi duri come quelli che stiamo correntemente affrontando, ci si accorge della necessità di rendere ogni istante rilevante, degno di nota. Forse dovremmo augurarci di poter tornare a vedere con occhi di bambino.

ELENA PIZZI ROMANO