La rosa bianca. La rosa rossa  Cultura

Riccardo III, il feroce re che sedette sul trono d’Inghilterra per soli due anni, dal 1483 al 1485, è il protagonista di una delle tragedie più famose di Shakespeare. La figura del monarca deforme, vero e proprio genio del male nella sua smisurata sete di potere, è stata interpretata dai più celebri attori del teatro mondiale.

Da noi singolare e discussa, tuttavia indimenticabile, la prova del geniale Carmelo Bene che concentrò i cinque lunghi atti del dramma in poco più di un’ora, condensando tutta la vicenda nelle celeberrime battute finali di Riccardo appiedato: “Il mio regno, il mio regno, il mio regno per un cavallo!”. Siamo a Bosworth, nel Leicestershire, dove Riccardo viene sconfitto ed ucciso da Enrico conte di Richmond - il futuro Enrico VII - concludendo così la guerra delle Due Rose.

Da oltre trenta anni si fronteggiavano le due casate York, simboleggiata dalla rosa bianca (alba), e Lancaster, rappresentata dalla rosa rossa (gallica). Alla famiglia York appartennero Edoardo IV ed Edoardo V e poi appunto Riccardo III che per assicurarsi il trono, destinato ai figli di Edoardo IV, suo fratello, fece assassinare i piccoli dei quali era il tutore.

In Shakespeare sono sempre presenti le rose: quando viene scoperto l’orribile infanticidio le boccucce insanguinate dei bimbi vengono paragonate a quattro rose rosse – four roses – che forse hanno dato il nome ad un celebre whisky.

Alla famiglia Lancaster appartennero i re Enrico IV, V, VI: quest’ultimo fu detronizzato da Edoardo IV dando inizio a quella guerra trentennale conclusasi sul campo di battaglia di Bosworth con la morte di Riccardo III.

Come spesso accade “tra due litiganti il terzo gode” e alle due famiglie rivali, entrambe appartenenti alla gloriosa secolare dinastia dei Plantagenèti, si sostituì la casata dei Tudor. Enrico di Richmond, degli York e Margherita Beaufort, discendente illegittima dei Lancaster, si uniscono in matrimonio e danno origine alla casata Tudor, rappresentata da un’unica rosa, bianca al centro e rossa ai lati.

E’ proprio Enrico, sul cadavere di Riccardo, a sancire la definitiva pacificazione: “E poi, come abbiamo giurato, uniremo la rosa bianca alla rosa rossa.” (“We will unite the white rose and the red”).

Come nella “perfida Albione” (era lo slogan nostrano contro i nemici inglesi nella II guerra mondiale prima che diventassero nostri alleati) così anche a Benevento si fronteggiarono, quasi nello stesso periodo, due fazioni, quella della Rosa bianca e quella della Rosa rossa.

E’singolare la coincidenza tra le due vicende, non solo temporale. I Plantagenèti erano, più propriamente, della casa d’Angiò e la sommossa tra i due partiti beneventani si riaccese quando l’arcivescovo dell’epoca, Giacomo della Ratta, cominciò a tramare per consegnare la città a Giovanni d’Angiò in guerra di successione con Ferrante d’Aragona.

Nella città sannita si erano assopiti gli antichi dissensi tra i nobili fautori del Papa e i popolari già dall’inizio del millennio filonormanni. Tuttavia il fuoco continuava a covare sotto la cenere e nel 1477 i contrasti, sopiti ma non spenti, si riaccesero.

Non si conosce la causa scatenante ma, come era accaduto nei secoli precedenti, si formarono nuovamente due partiti contrapposti a ciascuno dei quali però, a differenza del passato, appartennero sia nobili che popolani. Inizialmente si denominarono di Sopra o del Castello (quelli che abitavano tra la rocca e il duomo) e di Basso o della Fragola (quelli che abitavano tra il duomo e Porta S. Lorenzo) ma avendo già scelto dal secolo precedente come simbolo la rosa, preferirono chiamarsi quelli della Rosa bianca (in Inghilterra il colore della nobiltà feudale) e quelli della Rosa rossa (colore della borghesia cittadina).

Ma dopo Bosworth le casate rivali si riunirono sotto un unico simbolo, la rosa Tudor (in natura è la rosa x damascena “Versicolor”) mentre le fonti beneventane non accennano ad una reale riappacificazione. Pensiamo, visto come vanno le cose ai giorni nostri, che nella nostra bella città esistano ancora bianchi e rossi come cinque secoli fa… Ci conforta una bella tela di Anonimo settecentesco, conservata al Museo del Sannio, che rappresenta la pace tra i partiti della città, avvenuta il 28 febbraio 1530.

Non è specificato di quali partiti si tratti ma ci piace pensare che il motto inciso nello stemma cittadino “Concordes in unum” si riferisca proprio alla fine di quella secolare diatriba. Oggi, nella pur tormentata nostra democrazia ma nel rinnovato spirito di unità che sta, in questi giorni, attraversando tutta la penisola, ci auguriamo che non si debba più parlare di patrizi e plebei, di nobili e popolani, di ricchi e poveri, di padani e terroni.

Credo che noi tutti non vogliamo più divisioni e differenze, aspiriamo davvero ad essere un popolo concorde ed unito in una Patria Unica e Sola. Il bianco e il rosso delle nostre magnifiche rose trasferiamoli idealmente, uniti al bel verde della nostra lussureggiante natura (il verde tenero delle distese di grano, il verde argenteo degli ulivi, quello mutevole dei pampini, tutte le sfumature delle nostre foreste) sulla bandiera tricolore che è il nostro autentico, unico simbolo.

LILIANA BEATRICE RICCIARDI

 

 

Altre immagini