Estate 1938, Liliana Segre: ''Avevo solo 8 anni e, all'improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola'' Cultura

«Avevo 8 anni ed ero una bambina, famiglia italiana da generazioni e generazioni. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italiani di religione ebraica - trentacinquemila persone al tempo - che, di colpo, con le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio, per poi arrivare a diventare di serie Z.

Otto anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola. Era l’estate del 1938, avrei dovuto iniziare la terza elementare. I miei erano agnostici, laici, in casa non sentivo mai parlare di feste ebraiche, di questioni religiose o di appartenenze particolari, fu, quindi, per me, molto più difficile, anche per questo, rendermi conto che mentre io mi sentivo così uguale alle altre bambine, venivo da quel momento considerata una diversa».

Comincia così l’intenso e toccante racconto della deportazione subita nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau da parte di Liliana Segre, oggi senatrice a vita, la cui storia di dolore e testimonianza è nota a noi tutti. Il regista Giambattista Assanti ha voluto portare in scena al Cinema San Marco questo racconto semplice e vero, scandito dalla voce della giovane attrice Daniela Fazzolari, volto noto della Tv italiana, con la partecipazione della piccola orchestra composta dagli allievi del Liceo musicale “Guacci”, diretta con impareggiabile eleganza dal M° Debora Capitanio.

La recitazione ha visto coinvolte anche alcune studentesse della scuola primaria Bilingue.

Liliana Segre ha solo 13 anni quando viene prelevata dalla sua casa di Milano, dove non tornerà mai più, e condotta ad Auschwitz, luogo di inenarrabile sofferenza dove le è possibile vedere le mille facce del male. Subisce botte, viene messa a lavorare con altre donne sfortunate, che come lei hanno avuto la sola colpa di essere nate, è malnutrita, ma per tre volte scampa alla decisione delle SS di essere mandata nelle camere a gas o in qualche forno crematorio.

Tutto il racconto è percorso da una costante: quello di essere viva solo per miracolo e di volere vivere a tutti i costi. Questa forza di volontà sarà la sua salvezza.

Dopo l’armistizio del ’43, proprio quando gli ebrei speravano di salvarsi, si ritrovarono invece a vivere un altro incubo: gli elenchi con i loro nomi vennero consegnati alle SS e la caccia si fece più feroce.

Ci sono tante figure che compaiono nel racconto. Quelle dei nonni ormai anziani a malati, «arrestati nella loro casa, portati a Fossoli e dopo essere stati a Fossoli, portati a Milano, a San Vittore, e da lì deportati ad Auschwitz, dove arrivarono vivi per essere gasati e bruciati all’arrivo per la sola colpa di esser nati».

Quelle degli uomini della Gestapo, che torturavano e picchiavano i carcerati a San Vittore. Quelle dei delinquenti comuni rinchiusi appunto in questo carcere, i quali con il loro affetto ed i loro poveri regali diedero sostegno morale a Liliana ed a suo papà, mentre venivano spinti in un camion dove, con altri ebrei sarebbero stati condotti su uno squallido vagone piombato a bordo del quale avrebbero fatto un viaggio allucinante verso il campo di concentramento. Quello delle tante donne al campo, nude, private della loro dignità e di qualunque forza per opporsi a tanta malvagità.

E come fa la piccola Liliana a resistere a tanto dolore?

«Avevo scelto, quasi in modo automatico, bestiale, irrazionale, infantile - in fondo ero ancora una bambina - e nello stesso tempo in modo maturo, vecchio, ottuagenario - in fondo ormai tale ero diventata - avevo scelto di non essere lì, perché era la realtà intorno a me che era inaccettabile. Avendo scelto la vita - ho sempre scelto la vita e anche adesso che sono vecchia scelgo la vita - non potevo accettare la morte intorno a me e quindi avevo scelto di non vedere. Avevo scelto di essere una stellina».

C’è poi la descrizione dolente di Jeanine, giovane francese che lavorava con Liliana in fabbrica, morta gasata come tante altre donne che dovevano essere liquidate perché non c’era più posto nel campo. La Segre racconta che nel momento in cui portavano Jeanine a morire lei non si è voltata: «Jeanine è andata al gas per la colpa di essere nata, e solo io sono testimone di me stessa e dell’abisso a cui ero arrivata. Jeanine, per un attimo le rendo la vita, raccontando di lei alle intelligenze e ai cuori di chi legge: Jeanine, francese, ventidue, ventitré anni, bionda, due centimetri di ricciolini che erano ricresciuti, occhi celesti, voce dolce, andata al gas, in quella mattina, ad Auschwitz, colpevole di essere nata. Io non mi sono voltata. Io ero viva».

Alla fine dello spettacolo, che ha toccato il cuore dei presenti, Daniela Fazzolari ha letto il messaggio ai giovani scritto da Liliana Segre. Tra le altre cose la Senatrice scrive: «Il principio democratico è formidabile. Immaginate un albero in cui i principali rami si chiamano Pace, Uguaglianza e Libertà. Spero mi saprete perdonare per l’assenza. Il futuro è nelle vostre mani e la stella polare che vi guiderà si chiama Costituzione».

Un plauso va a Giambattista Assanti per avere fortemente creduto in questo spettacolo che si inserisce nella serie di manifestazioni legate al Giorno della Memoria e per il forte impegno civile che da sempre contraddistingue il suo operato nella nostra città.

LUCIA GANGALE

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