Pasqua a Benevento negli spazi elestici del Trescene Cultura

Fu di Papa Vittore III, beneventano, l’idea che il Cristo risorto e tornato nel mondo terreno si sarebbe meglio impresso nella mente dei fedeli se gli artisti ne avessero sovradimensionato la figura fisica. Di nome Desiderio, nato nel 1027 nella Benevento ancora capitale di un Principato longobardo, fece dipingere un monumentale Cristo in trono (nell’immagine) nell’abside della Basilica benedettina di San Michele, a Sant’Angelo in Formis presso Capua. Al margine sinistro dell’affresco volle il proprio ritratto in veste di abate di Montecassino, col modello architettonico della chiesa tra le mani.

A poca distanza da Benevento il complesso abbaziale, un gioiello d’arte, testimonia l’impulso che Desiderio diede alla cultura europea nella fase estrema del dominio longobardo nel Mezzogiorno d’Italia. Tuttavia i beneventani continuano a trascurare il rapporto tra quel pontefice e la propria città.

Benevento gli ha intitolato il Vico Vittore III che parte da Piano di Corte nel Rione Tréscene, ma nessuno sa niente di quel pontefice né della Cappella di San Pantaleone all’inizio del vicolo, minuscola, tre metri per due, misteriosa dentro e maltenuta fuori. “Sono i forestieri quelli sanno sempre tutto - dice uno studente fermo a cavallo di una motocicletta - ma pure loro a volte chiedono cosa ci fa un Santo in una casetta così piccola che sembra un rifugio. Ma nel nostro rione tutto è elastico, il grande diventa piccolo e viceversa. Anche noi ragazzi elasticizziamo: stringiamo la grande Piazza Arechi II chiamandola Piazzetta, invece allarghiamo quest’altra piazza chiamandola Piazzapiano. Elasticizza pure Google, che sulla mappa di Benevento sminuisce Papa Vittore III chiamandolo Vittorio III, come se fosse un Savoia decaduto”.

Dai è Pasqua, gli dico mentre lui si guarda intorno in cerca di un posto per la moto, non sempre è tutto OK come sentiamo nei film, ma proprio quello che stai dicendo in questo spazio riservato a suo tempo alla corte principesca (per carità, non chiamarlo più Piazzapiano, basta semplicemente Piano di Corte) mi fa pensare che anche papa Vittore III… elasticizzava: va a vedere quanto ha fatto ingrandire il Cristo in trono nella basilica di Sant’Angelo in Formis per affermare la verità teologica della sua duplicità: morto e risorto in quanto Uomo, eterno in quanto Pantocrator, Signore dell’Universo.

Così il pensiero va oltre, ispirato dalla storia di Piano di Corte in cui sfociano vicoletti da ogni lato, immaginando persone in transito per secoli nei rioni Tréscene e Trappeto con al centro il Monastero di Santa Sofia.

Dell’epoca longobarda restano tante immagini di Madonne e Santi, ma figure grandi di Cristo non ce ne sono, e non solo a Benevento. Fu la cultura bizantina nel XII secolo a portarne la figura a un sovradimensionamento estremo nella calotta dell’abside del Duomo di Monreale in Sicilia, dove un fantastico Pantocrator a mosaico incombe su tutto lo spazio sottostante. E passarono secoli fino a quando nella mente di un grande artista olandese balenò un’idea diversa, che spiazzò il modo di raffigurare la Resurrezione.

Sorprendente qualche anno fa, nella Pinacoteca di Brera a Milano, il confronto tra due famosi dipinti della Cena in Emmaus, autori Caravaggio e Rembrandt nei primi decenni del Seicento, interpreti entrambi del testo di Luca evangelista. Nel villaggio di Emmaus presso Gerusalemme due discepoli di Gesù incontrarono un viandante e gli raccontarono la tragica crocifissione e la fine della loro speranza di salvezza trasmessa dal Maestro. Andarono poi a cenare insieme. Ma durante la cena, osservando il gesto caratteristico con cui il viandante spezzava il pane, i due riconobbero in lui il Maestro. Era tornato tra gli uomini, e lo confermò la sua improvvisa sparizione.

Realistica la composizione del Caravaggio: l’oste che s’intromette, un pollo nel piatto, pane e vino rosso nel vetro luccicante del bicchiere, la cesta di frutta sul tavolo coperto da una tovaglia bianca che tra guizzi di luce contrasta con l’atmosfera tenebrosa. Ma il Cristo resta un raffinato racconto. È invece l’olandese Rembrandt a proporre, di quella serata, una scenografia straordinariamente moderna, una sorta di versione fotografica dell’evento. Nel buio, schiarito solo da una luce nascosta, s’intravedono a sinistra una donna chinata ad accendere legna nel camino e uno dei commensali prostrato sulle ginocchia del viandante dopo averlo riconosciuto. L’altro, di fronte, si ritrae stupefatto dal gesto del Cristo che spezza il pane a due mani nel modo a lui consueto. Il Risorto, in inquadratura dinamica di tre quarti, si erge in primo piano, scurissimo in controluce, ma se ne riconosce il profilo proiettato sulla parete retrostante.

È l’ombra questa volta, non la dimensione, a garantire il ritorno del suo corpo alla vita.

ELIO GALASSO