Valero Gramignazzi Serrone tra antichità riciclate a Benevento Cultura

Benevento ha una storia identitaria specificamente ‘sannitica’ nel contesto evolutivo della Campania, sosteneva Alfredo Zazo. Provavo perciò a parlargli di ‘archeologia sannitica di epoca romana’, ma lui si divertiva a provocare con il confronto suo preferito: “ROMA QUANTA FUIT IPSA RUINA DOCET” - Quanto sia stata grande Roma ce lo insegnano le sue stesse rovine… - sapendo bene che di rovine propriamente romane ce ne son poche a Benevento, perché quello che sembra romano fu fatto da mano ‘sannita’. Concordò infatti col mio progetto, poi realizzato nel 1991 (E.GALASSO, Il Museo del Sannio a Benevento, CO.BE.CAM. 1991), di dedicare una Sala del Museo del Sannio alla Scultura Sannitica di Età Romana, fino ad allora definita impropriamente Scultura Romana benché del tutto diversa per materiali, tipologie e stili dalle statue in marmo di divinità, imperatori, personalità non solo politiche e dall'Arco di Traiano portati da Roma.

Approfondivo l’argomento con l’amico Valerio Gramignazzi Serrone, geniale fotografo d’arte beneventano, ricorrendo alle sue interpretazioni visive di opere d'arte e monumenti poco frequentati come le Chiese di San Filippo, di Santa Lucia e altri capolavori, tra cui la Chiesa dell’Annunziata di Airola documentata fin nei dettagli dalle sue fotografie nel Catalogo di una Mostra da me curata nel 1988.

Valerio non c’è più. Noto a dimensione internazionale, colmo di riconoscimenti, risiedeva nello storico quartiere Triggio, anima vivente - diceva lui - di una antichità riciclata attraverso i secoli, pronta a riproporsi in vita dopo guerre e terremoti emergendo dalle sue stesse macerie. Sorprendentemente attuale il suo aggettivo ‘riciclata’, riferito al reimpiego con valore memorativo dei resti di epoca romana tra i quali si vive quotidianamente nel Triggio, ma anche nei quartieri Tréscene e Trappeto e nei vicoli del centro storico della città dove si stratificano personaggi, materie, simboli, reliquie. Egli li avvertiva come propri e ne traeva immagini che esaltavano “la presenza dell’oggetto oltre l’apparenza” per proiettarla nella mente dell’osservatore. Le sue fotografie pubblicate dal Turing Club Italiano, nel suo volume Benevento fascino di una città antica (Electa Edizioni, 1990), nei Cataloghi di Mostre del Museo del Sannio e in altri testi, sono gioielli di una cultura che regala piaceri e conoscenza.

Alternava riprese di stile classico a scatti destinati a uno sguardo ‘di sguincio’, laterale, che fanno diventare attentissimi i più distratti. Scopriva l’invisibile ogni volta che prendeva in considerazione un reperto, motivando: “è la manina di un bambino locale perché non ha le unghie curate; in quel ritratto maschile zigomi e rughe sono le nostre caratteristiche somatiche; l’acconciatura di quell’anziana donna risale al periodo augusteo ma potrebbe essere arrivata di moda a Benevento nel secolo successivo; la ragazza sannita più carina resta quella del Rilievo con una coppia di sposi custodito nel Museo del Sannio: volto armonioso, direi greco, perché i Sanniti amavano l’arte greca, basta vedere quanta ne vien fuori a Montesarchio”. E concludeva: “Ho sempre notato che fin lassù sul campanile del Duomo, quasi tra le stelle del cielo, le antichità inserite nei nostri muri son fatte con la stessa pietra calcarea dei blocchi che sostengono le murature di casa mia, vicina all’Arco del Sacramento marcato di estraneità dai suoi residui di marmo…”.

Parlava così Gramignazzi, sottolineando che la pietra calcarea è un materiale identitario subito riconoscibile, usato dai Sanniti in epoca romana come una dichiarazione pubblica di rifiuto della romanità conquistatrice. Per questo non è fatto di marmo ciò che si vede in giro per la città, le grandi Maschere a bocca spalancata che forse ornavano il Teatro Romano, la mezza Statua femminile ammantata che accoglie ospiti ai piedi della scaletta di una casa nel Tréscene, le tessere policrome di pavimenti miste a ciottoli di fiume, i ritagli d’architettura incastrati in prospettive che attraggono negli angoli reconditi. Lo dice anche l’attimo in cui un Passante lungo il fianco della Cattedrale saluta da amico una delle tante Epigrafi latine che parlano di cariche pubbliche mestieri consuetudini affetti familiari. Dialogano con chi non sa leggerle ma sa rispettarle, collocate fin sotto le arcate del Ponte Leproso, dove nessuna donna scende più a lavare i panni, nessuno va più a pescare né i ragazzi a fare il bagno.

Meditava Valerio sulla perdita del colossale Anfiteatro Romano che fa la spia da sotto i palazzi sovrapposti nel dopoguerra, andava in cerca di frammenti di Statue di gladiatori cominciando dal rilievo del Museo del Sannio col ‘Gladiatore trace’ diventato famoso per essere stato in prestito alla Mostra d’Arte Sportiva delle Olimpiadi di Seul nel 1988 e poi adottato come simbolo di Premi ufficiali dalla Provincia di Benevento. Provenienti da un misterioso Monumento, rintracciò braccia teste busti, fino alla Gamba di gladiatore incastrata nella torretta ovest sull’attico della Rocca dei Rettori. Spesso ho mostrato ai giovani della città le sue fotografie in cui le antichità diffuse nei vicoli appaiono una street art d’altri tempi, da capire non certo da eliminare. Abituati fin da bambini a convivere con leggende di streghe e diavoli, i ragazzi non avvertono le ossessioni dei fanatici della ‘cancel culture’ all’americana accanita a cancellare fantasmi della vita che non c'è più. Anticipava i tempi Valerio Gramignazzi Serrone riflettendo sulle vicende che a Benevento hanno portato tanti reperti erranti a trovare nuovi contesti e significati. Arrivò a intuire possibilità di utilizzo inedite per le documentazioni storico-artistiche sparse in città, utili a stimolare registi cinematografici ad accantonare gli stereotipi con cui la variegata gente della Regione Campania viene banalmente omogeneizzata tutta nella napoletanità.

Cattolico nel profondo, sospendeva il dialogo soltanto se accennavo alle distruzioni determinate dalla diffusione iniziale del Cristianesimo, quando a Benevento furono sfregiati e distrutti templi e opere d’arte dei culti pagani, nessuna statua manipolata per trasformarla in una santa o in un santo, come invece accadde in altri centri dell’Impero romano: “Non vedo azzurro celestiale tra i colori scuri dei marmi egiziani del corredo del Tempio di Iside custodito dal Museo del Sannio”, diceva trascurando l’argomento. E così non notò mai il grande Capitello di parasta col suo prorompente segnale isiaco, ‘riciclato’ a portata di mano in Via Carlo Torre (foto) . Sfida pagana nell’angolo del Palazzo Arcivescovile attiguo all’Arco del Sacramento, il reperto conserva il Disco solare che nelle antiche immagini egizie sormonta la testa della dea Iside, letteralmente ‘ghigliottinato’ invece su un capitello quasi gemello custodito nel Museo del Sannio.

Non ne comprendeva il significato ma non poteva ignorarlo Valerio Gramignazzi Serrone, che per ironia della sorte aveva casa proprio lì, pochi metri oltre l’Arco del Sacramento…

ELIO GALASSO